Arcade Fire – Reflektor

Potrebbe sembrare una (pericolosa) contraddizione in termini detta qui e così, ma non è sempre facile avere un giudizio su tutto. Nel caso di Reflektor e dischi simili, il compito si fa ancora più difficile. Perché gli Arcade Fire sono considerati da più parti la cosa più importante che il rock abbia prodotto negli ultimi dieci anni, perché Reflektor è stato lanciato con una campagna pubblicitaria implacabile e furbissima, perché intorno ci gravitano a vario titolo nomi come quelli di James Murphy, David Bowie, Anton Corbijn. Insomma, Reflektor è già storia – non a caso molti (Rolling Stone, per esempio) l’hanno paragonato a Kid A dei Radiohead o ad Achtung baby degli U2. Certo, pretendere di valutare con precisione, “hic et nunc”, la portata estetica e culturale di un disco è – questa sì – una contraddizione in termini, e dunque è un punto che si può facilmente trascurare. Restano le canzoni: e di grandi qui ce ne sono, a cominciare dalla title-track e da Afterlife, i primi due singoli, autentici traini di un album finito sulla bocca di tutti molto tempo prima che se ne conoscessero i dettagli.

Reflektor è stratificato, complesso, imponente per ambizione e costruzione. Sotto questo aspetto, è uno degli esperimenti più eccitanti dell’ultimo ventennio: un mix subdolo di rock, elettronica, new-wave, etno, disco e soul, orchestrato con precisione maniacale e straordinario senso estetico (i suoni sono davvero magnifici). Tutto perfetto, a tratti pure troppo: manca qua e là un po’ di brillantezza, che impedisce ad alcune tracce di esplicare fino in fondo il proprio (enorme) potenziale. Certo è, però, che episodi come la title-track lasciano il segno senza troppi indugi, con una disco-music esotica (l’album è stato registrato ad Haiti) in cui niente, neppure i versi in francese e il featuring di Bowie, suona come un riempitivo o una rifinitura leziosa. Efficace anche We exist (con un giro di basso à la Billie Jean), ben amalgamata al glam rock veemente di Normal person e agli aromi dub-reggae di Flashbulb eyes e Here comes the nightime. Joan of Arc, scegliete voi se è la versione melodrammatica di Blondie o quella seria del Gioca jouer.

Il “lato B” di Reflektor è persino più avventuroso, introdotto dalla ballad sintetico-orchestrale Here comes the night time II. La litania di Awful sound, imperniata su una chitarra acustica e un tappeto ritmico implacabile, fa pensare un po’ a Bowie, un po’ ai Beatles, un po’ ai Pink Floyd, mentre Afterlife ha una genuina esuberanza terzomondista e un fiuto “pop” degno dei New Order. Supersymmetry chiude in chiave estatica, con 11 minuti di riverberi, minimalismi e droni, sottolineando definitivamente come sia la psichedelia – più che l’electro (vedi Porno) – la chiave di lettura di Reflektor. Un disco visionario, che rimodula in forme nuove il pathos adolescenziale di Win Butler e soci, e soprattutto che mostra come si possa citare il passato senza rimanerne schiavi.

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