Múm – Smilewound

Se anche un sorriso ferisce (Smilewound), allora le speranze sono davvero poche a questo mondo. Ma i Múm, si sa, amano i contrasti, gli altri dischi avevano titoli come Yesterday was dramatic – Today is ok (2001), Finally we are no one (2002), Sing along to songs you don’t know (2009). Per non parlare poi della musica: come in passato, Smilewound gioca sul divario tra melodie delicate, vocalizzi eterei, testi all’occorrenza anche “duri” e un impianto ritmico brillante, che talvolta sembra mirare a decostruire i pezzi.

Bel cortocircuito, insomma, ma il risultato offre più di qualche motivo di soddisfazione. Toothwheels, per esempio: su un groove hip-hop fa germogliare lievi tocchi di tastiere e soprattutto di archi, che definiscono con vividezza l’atmosfera fatalista del pezzo. When girls collide sfodera un’elettronica da videogame e un piglio acidulo: «it’s time to break this bloody spell / It’s time to blow shit up to hell», recita il testo, intonato con la solita vocina celestiale da … I riferimenti alla base dell’album sono vari: Slow down, ad esempio, con quei beat da club music su cui si distende pigra la melodia (condita dai soliti archi) ammicca un po’ a Björk (versante Vespertine), mentre Sweet impression ha degli echi folkie assicurati da un arpeggio di chitarra opportunamente ovattato.

One smile accelera in direzione tribale, impreziosita da orchestrazioni orientaleggianti, mentre Time to scream and shout si muove incredibilmente lenta, acquosa, con influenze classiche: le armonie vocali la fanno sembrare una versione adulta dei mondi bizzarri ipotizzati tante volte dalle sorelle Casady (malgrado l’andamento da ninna nanna, c’è da aver paura). A differenza delle CocoRosie, però, i Múm hanno dalla loro una bella maturità, che gli permette di non scadere nell’autoindulgenza, anche quando si lanciano in tentativi di decostruire la canzone pop (Slow down).

Altro gioiellino è The colorful stabwound (“la pugnalata colorata”: a proposito di contrasti), che vanta un impianto ritmico più strutturato (in direzione drum’n’bass) e in compare persino un riff di keyboards a far da collante. Sul finale, sale in cattedra Kylie Minogue: Whistle sfrutta la voce della regina del dance pop per avventurarsi, paradossalmente, in territori più sigurrosiani, tra estasi orchestrali e tam tam tribali. Insomma, ce n’è di spunti in questo Smilewound: la sua ricchezza è di quelle che ti conquistano a poco a poco, lasciando ferite che la qualità del songwriting aiuta subito a cicatrizzare. Del resto, se proprio bisogna sanguinare, che sia almeno con una buona colonna sonora…

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