Arctic Monkeys – AM

Alex l’americano. Da High Green, un sobborgo di Sheffield, dove nel 2002 cominciò l’avventura con i suoi Arctic Monkeys, a Los Angeles (dove ora vive) e alle collaborazioni con Josh Homme, Turner ne ha fatta di strada. Parallelamente il sound della band: se all’inizio le “scimmie” erano la nuova sensazione del brit rock, cantori della vita dei giovani clubbers nell’Inghilterra settetrionale, piano piano l’asse compositivo s’è spostato in direzione USA, prendendo la via del Mojave (Humbug).

Non hanno perciò stupito più di tanto le recenti dichiarazioni di Turner, il quale, nell’annunciare l’uscita del nuovo lavoro della band, aveva parlato di «un beat alla Dr. Dre» fuso con la black music di Ike Turner e, soprattutto, con una Stratocaster spedita al galoppo nel deserto. La combinazione, per quanto eccentrica sulla carta, rappresenta un’evoluzione logica, che gli Arctic Monkeys hanno sviluppato nel loro solito modo: mano ferma ma anche poca emozione. Nelle dodici tracce di AM non mancano gli spunti intriganti, ma sembrano essere, più che idee nuove, un buon assemblaggio di cose già sentite. Ci sono, per esempio, i Queens of the Stone Age: gli stomp Do I wanna now? e I want it all, con quell’appeal goticheggiante (il primo) e glam (il secondo), sembrano venuti fuori da …Like clockwork. In One for the road (come in Knee socks), Homme c’è sul serio (alle vocals), ma il beat hip hop rende più labile la somiglianza e i coretti (una delle costanti del disco) sembrano mutuati dai Rolling Stones di Simpathy for the devil.

Arabella pure ha un battito groovy, ma vi innesta un hard blues che sa di Led Zeppelin (occhio però alla citazione beatlesiana nel testo). La (ri)costruzione è impeccabile, così come l’r’n’b discreto e notturno di Why’d you only call me when you’re high?, ma la sensazione è che manchi comunque qualcosa. Mad sounds, poi, è addirittura eccessiva nell’omaggiare i Velvet Underground, e messa nello stesso cesto di No. 1 party anthem (titolo ironico: è un lento un po’ lennoniano) e I wanna be yours (una ballad r’n’b romatica e spettrale), qualche scompenso lo crea.

Insomma, AM non chiarisce i dubbi sull’identità degli Arctic Monkeys che, puntualmente, fanno capolino ad ogni nuova uscita. La band di Turner l’oceano l’ha varcato fisicamente, ma le radici brit sono ancora lì e la nuova cultura è stata evidentemente assimilata solo superficialmente, in forma più mitica che empirica. Il risultato del cortocircuito tra passato e presente a tratti assume contorni irreali, dopo il fascino iniziale lascia un retrogusto confuso. Di strada, Alex l’americano deve farne ancora parecchia.

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