No Age – An object

Post-punk, no wave, noise rock, avant rock: per i No Age le etichette si sprecano. Colpa di un sound letteralmente “senza età”, affamato di citazioni e spunti eterogenei che coprono un arco (temporale, geografico) assai ampio, che da Ramones e Pere Ubu arriva fino a Sonic Youth e Stockhausen. A conti fatti, e come dimostra bene anche An object, si tratta di una musica meno complessa di quanto, sulla carta, non sembrerebbe. Dean Spunt e Randy Randall sono concettuali, certo (No age è una meta-opera sulla musica come oggetto-suono e oggetto-disco), ma senza rinunciare ad un’immediatezza tutta peculiare, che se da un lato sottrae un po’ di profondità, dall’altro impedisce alla scrittura di cedere completamente all’intellettualismo più arido.

Insomma, “inascoltabili” non lo sono mai, i No Age, e neppure così radicali. Intelligenti quello sì, però. Soprattutto, duttili e subdoli. An impression, ad esempio, modella un acquerello un po’ Brian Eno con l’aiuto di opportune pennellate di archi, e subito dopo Lock box si rimangia tutto, con un pattern ritmico tribale serrato su cui si snoda, ipnotico, un riff psichedelico di chitarra e una linea vocale dalla foga ramonesiana. Pure C’mon, stimmung è bella tirata, ma la coltre di distorsioni granulose stempera l’impatto fisico del pezzo. Quello dei No Age è un rock astratto, che riflette sul concetto di simmetria, di forma, dunque sulla sua stessa costruzione, nel mentre si prende parecchie licenze. No ground, ad esempio, apre con uno scampanellio di chitarre in delay e un basso granitico, ma rinuncia alla batteria: il risultato è stralunato e urticante, “sospeso”, malgrado il piglio marziale.

Running from a go-go alza un po’ il tiro: una fluttuazione sintetica e qualche sample agitano la filastrocca intonata da Spunt. E in effetti, la seconda metà del disco è più rarefatta: persino la martellante Circling with dizzy (dal sapore industrial) è talmente tanto essiccata da sembrare irreale. A ceiling dreams of a floor e Commerce, comment, commence sono immerse della stasi epica dell’ambient, con la seconda, in particolare, impegnata in un crescendo che sembra voler saturare lo spazio sonoro.

La maestria di Spunt e Randall è indiscutibile, così come l’efficacia e l’impatto delle loro tessiture astratte. Il punto, però, è che in An object di nuovo c’è pochissimo: dal gioco di specchi metatestuale al repertorio di droni, campionamenti e decostruzioni che costituisce il filo rosso dei brani, l’effetto déjà vu è innegabile. Se si accetta questo limite, l’ascolto fila via senza intoppi. Ma da un album così, non è lecito aspettarsela, un po’ di sana difficoltà?

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