Thomas Mann – La morte a Venezia

È con La morte a Venezia che Thomas Mann ha toccato uno dei punti più alti e intensi della sua produzione, iniziata tanti anni prima con il romanzo I Buddenbrook, pubblicato nel 1901.

È a Venezia che Gustav Aschenbach respira l’ultimo alito di vita, provando quella sensazione di piena felicità che un uomo percepisce quando tutte le maschere che è costretto a portare nella vita pubblica cadono, rivelando la sua natura intima e reale. Aschenbach è un moderno Lazzaro che resuscita dopo un’esistenza all’insegna del conformismo, del rigore e del metodo, necessari a chi, come lui, è uno scrittore di monumentali opere storiche. Una morte metaforica, che dura fino al giorno in cui egli prova l’impellente bisogno di allontanarsi dalla sua casa e di viaggiare. Dopo un deludente soggiorno a Pola, Aschenbach riparte alla volta di Venezia, dove, casualmente, nota una famiglia di villeggianti polacchi, ospiti presso il suo stesso albergo, tra i quali c’è il giovane Tadzio. Per Tadzio, Aschenbach svilupperà una vera e propria ossessione, senza, tuttavia, concretizzarla in alcun modo. Diviso tra il bisogno di controllare i suoi impulsi e la necessità di dar loro libero sfogo, l’uomo andrà incontro a una seconda morte, questa volta definitiva e reale. Infatti, a Venezia imperversa un’epidemia di colera e, sebbene conscio del pericolo che sta correndo, Aschenbach si rifiuta di partire, per non allontanarsi da Tadzio.

Morte a Venezia è un inno alla Bellezza, così irraggiungibile da risultare insopportabile, così bramata da sacrificarle la vita. Bellezza che, nel racconto, equivale a giovinezza: infatti, Tadzio incarna agli occhi di Aschenbach un tempo ormai trascorso e perduto, votato alla ricerca di una sorta di perfezione tramite la scrittura, senza, tuttavia, essere mai riuscito a conquistarla. La città di Venezia appare come un luogo incantato, un microcosmo staccato dal resto del mondo, per diventare uno spazio sfumato, quasi magico, nella parte finale del testo, quando Aschenbach si ritroverà ad osservare Tadzio per l’ultima volta, mentre gioca con degli amici sulla spiaggia – scena fedelmente riproposta da Luchino Visconti, nell’omonima trasposizione cinematografica del 1971. In questo frangente, Aschenbach ha la sensazione che Tadzio gli stia indicando qualcosa, un punto lontano, oltre il mare. È la direzione per la perfezione tanto agognata, la meta che un uomo finalmente raggiunge dopo un lungo errare terreno, l’apice e il senso più profondo del suo essere esistito: la morte.

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