Raimond Carver

Ad occhi chiusi: scritture, immagini e sussulti d’animo in Raymond Carver

La scrittura di Raymond Carver contiene in sé un piccolo gene rivoluzionario, che si è insinuato nella letteratura americana rendendo questo autore uno dei massimi esponenti del Novecento. Questo gene è la vita quotidiana, che esplode nelle sue opere in protagonisti semplici, per i quali la bellezza, l’eroismo, la ricchezza, sono doni sconosciuti. Le loro vite sono spesso fatte di dolori che non esplodono in maniera chiassosa, ma si assottigliano tra le pagine dei libri e si alternano a momenti di “piccole illuminazioni”. Questo li rende umani, veri, trasparenti. Carver è così, ha ispirato generazioni di scrittori con l’arma della semplicità della narrazione, della poesia contenuta nello scorrere dei giorni. Cattedrale è uno dei suoi capolavori: dodici storie che fanno dell’emotività il fulcro vitale, in cui il lettore viene catapultato nei treni, nelle sale d’aspetto, negli ospedali, in strada. Questi luoghi si trasformano nei teatri in cui vanno in scena i destini della gente comune.

Tra questi, quello di un cieco, protagonista di uno dei racconti (Cattedrale, appunto, che dà il nome all’intera raccolta). Arrivato ospite per qualche giorno a casa di una coppia di coniugi, con la sua diversità porterà scompiglio nell’intimità degli sposi. Ma a volte, per vedere bene occorrono sentieri dell’anima che non per forza passano dagli occhi. La cecità che ci mostra Carver è un percorso di scoperta, un modo di vedere il mondo che dal non vedente passa alla realtà intorno, ad ogni altro essere umano. Ci parla Carver, parla ad ogni lettore tappandogli gli occhi, prendendolo per mano grazie ad un foglio bianco e ad una matita, dove, mentre il cieco sta disegnando una cattedrale, noi stiamo creando i nostri sogni. Questo è il potere della letteratura: oltre lo scritto c’è qualcos’altro che spetta a noi trovare, rimodellare, fare nostro. Dentro ogni storia nascono altre storie, e a volte è solo chiudendo gli occhi e affinando gli altri sensi che possiamo diventare veri protagonisti. Così, allo stesso modo, dentro ogni vita si intrecciano altre vite, e a volte è solo nel buio più profondo che si riesce a conoscere la vera forma delle cose, per afferrare e stringere quelle vite, non lasciarle andare. Così, da un libro, nascono altri libri.

Un grande fotografo incontra un grande scrittore e gli propone un reportage mai tentato: fermare le immagini del suo mondo reale, del nord-ovest degli States, per dare visibilità a quello che è anche il suo mondo letterario. Ne nasce Carver Country, un libro che affianca gli scatti di Bob Adelman alle parole del narratore e che ci fa entrare a occhi aperti in quel paese «minimalista» dove già ci siamo addentrati come ciechi, appesi alla mano di chi racconta. È una mappa del suo universo letterario in cui luoghi dell’infanzia e della giovinezza si sovrappongono agli scenari della narrativa. Dai dispacci fotografici che ci spedisce Bob Adelman, Carver Country è una delle grandi e sconosciute capitali americane, una delle tante città che si riproducono come non luoghi lungo la strada: motel con la tripla A, sagome di cowboy a cavallo arrampicate sui pali della luce, case sepolte nella neve, salotti di finta armonia, cameriere al diner con la casacca rosa inamidata, lo squallore degli interni più sovrastato che riscattato dall’immensità degli esterni. Qui la strada principale non è «main street», ma la «desolation row» cantata da Bob Dylan («a mezzanotte gli agenti e la ciurma sovrumana escono fuori e arrestano tutti quelli che sanno più di loro, li portano nella fabbrica dove la macchina dell’infarto viene legata alle loro spalle e poi il kerosene viene portato a valle dalle fortezze da assicuratori che controllano nessuno scappi dal vicolo della desolazione») e insieme ci cammina il padre di Bruce Springsteen che come lui racconta nell’introduzione parlata all’esecuzione dal vivo di The River, in puro stile Carver («mi aspettava di notte, in cucina e ogni volta la prima cosa che mi chiedeva, quando rincasavo era: che cosa pensi di fare della tua vita»).

Adelman ha girato a lungo perché noi potessimo fare un tour visivo in questo Paese che non c’è. Ci ha riportato volti e oggetti, repertato il fantastico mostrandocene, in negativo, la matrice. A un certo punto sbuca pure il cieco, quello che ha ispirato Cattedrale. La didascalia ci informa che il suo vero nome è Jerry Carriveau. Nell’immagine ha l’immancabile sigaretta (e un posacenere pieno di cicche), il bicchiere di whisky e non porta occhiali scuri. Gli manca solo il barbone. Ci guarda e ci mette a disagio. Perché? Non certo per lo sguardo inquietante. È che ci dice, come nel racconto originale, di chiudere gli occhi e non guardare più, non guardare le foto, non leggere le didascalie, uscire da Carver Country. E qui si torna a Cattedrale al suo gran finale, in cui tutti hanno gli occhi chiusi. «Be’? Stai guardando». «Grandioso».

La letteratura, quando lo è davvero, è quel disegno a matita sulla carta (il quadrato, i campanili, i contrafforti), e noi che leggiamo siamo la mano sulla mano di chi scrive. A occhi chiusi entriamo nel suo mondo. Crediamo in lui perché vogliamo essere qualcuno che crede in qualcosa. Crediamo che, con qualche movimento delle dita e molti sussulti dell’animo, sarà capace di farci vedere una cattedrale, qualunque cosa sia per noi che in una cattedrale non siamo entrati mai. Ma è come l’avessimo fatto ed è stato grandioso, appoggiati alla mano di Carver, in un salotto qualunque, senza mai aprire gli occhi e vedere la televisione e, sullo schermo, una cattedrale banalmente autentica, geometricamente perfetta, non storpiata dalla nostra difficoltà di immaginarla, disegnarla, entrarci dentro sederci e confessare, padre chiedo perdono, che cosa pensiamo di fare della nostra vita. C’eravamo già stati a Carver Country, come a Ciudad de Garcia Marquez, o a l’Ile de Vian. Aprire gli occhi, a volte, non rivela niente.

Donato Bevilacqua, Valentina Piccioni

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