Zeruya Shalev – Quel che resta della vita

Si può andare avanti per molto tempo senza avere il coraggio di guardare quel che ne è stato della propria vita. Ci si fa trascinare dalla corrente degli anni finché qualcosa non ci inchioda su un presente ferito dai detriti che ci si porta dietro. Spesso è la malattia che costringe a questo brusco arresto.

È così anche nel nuovo libro di Zeruya Shalev, Quel che resta della vita. Hemda Horowitz giace malata su un letto d’ospedale. Non può muoversi se non nei ricordi. Ripensa all’infanzia, al kibbutz in cui è nata, alla mancanza di affetto patita come figlia e all’incapacità, da madre, di donare lo stesso amore ai due figli. Dina e Avner sono lì, accanto a lei. Si muovono intorno al suo letto, assorbiti dalle proprie vite, cui sembrano pensare davvero per la prima volta. Lei, sposata con Ghideon, madre dell’adolescente Nitzan, percepisce lo scorrere del tempo, si vede invecchiare e viene colta dall’indomabile desiderio di avere un altro figlio. Anche Avner, avvocato penalista, punto di riferimento per le minoranze, ha una famiglia, una moglie e due figli. Una profonda inquietudine lo porta però quasi a dissociarsi dalla sua vita. Non vi si riconosce più e nel cercare una soluzione non può che rimettere in discussione tutto.

Zeruya Shalev, per narrare le storie dei suoi personaggi, sprofonda spesso nel flusso di coscienza. I loro pensieri si intrecciano in un continuo rimando tra passato e presente. Non è semplice seguire questi movimenti. Le frasi molto lunghe rendono ancora più complessi i paragrafi già emotivamente intensi. E se questo in alcuni passaggi è un pregio, in altri rischia di appesantire e rallentare troppo il procedere della storia.

I personaggi femminili, Hemda, Dina e Nitzan, rappresentano i tre punti forti del romanzo. L’introspezione psicologica, forte in tutto il libro, nei passaggi che le vedono protagoniste si fa ancora più lirica ed empatica. Il lettore, trascinato da una storia che si sviluppa quasi per osmosi da una mente all’altra dei protagonisti, trova nell’insorgenza di alcuni richiami storici un’ancora cui sostenersi. La struttura sociale del kibbutz viene in parte analizzata e progressivamente messa in discussione. La modernità, portata nel romanzo soprattutto attraverso Nitzan, sembra incapace di conciliarsi con tale forma associativa.

Quel che resta della vita è un libro impegnativo e faticoso. L’amore, la malattia, i rimpianti, gli errori, la necessità di una redenzione sono temi che la scrittrice non ha paura di trattare. La Shalev si immerge anzi totalmente nella materia narrativa. Non vuole distaccarsene criticamente ma trasmetterla senza filtro. Il lettore deve quindi essere pronto a rielaborare un tale amalgama di emozioni, senza esserne travolto.

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