Salve, sono la Guerra. quella dura realtà che voi europei avete rimosso dall’orizzonte, finché non vi è esplosa sotto casa, lasciandovi sgomenti e impreparati. Sono io che passo e lascio distruzione, io che disgrego e che reprimo, io che mi compiaccio nel fondamentalismi, che metto uomo contro uomo e uso, a volte, armi più subdole dei cannoni. Così divento solitudine negli orfanotrofi, dolore negli ospedali, fatiche nei campi di lavoro, disperazione sull’orlo del Terzo Mondo. E mentre mi vanto del mio brutale potere e ancora investo questo pianeta stanco, mi guardo addosso e riconosco di aver perso, a volte. Una sconfitta che si chiama “narrazione”, che spesso vuol dire “resistenza”. Un giorno incontrai Ettore Mo, un piccolo uomo che col giornalismo ha cominciato tardi, ma che ha iniziato a seguire le mie orme, a calpestare ogni mio passo. E mentre fiutava la mia scia, semplicemente raccontava, e raccontando mi combatteva, perché tutti potessero conoscermi.
Questa è la Loro storia, quella della Guerra e della vita randagia di un Piccolo Grande Uomo, che ha fatto il suo giornalismo con la suola delle scarpe.
Così arrivai in Afghanistan, ero i sovietici che imponevano il silenzio, il regime filo-russo di Kabul instaurato nell’aprile del ’78. Artiglierie che iniziavano il loro lavoro dopo le dieci; i bombardamenti della notte, ombre di gente che correva piegata nei camminamenti, coi fucili che, contro di me, servono a nulla. Occhi di uomini con la faccia mezza coperta, che spalancavano portiere al suono dei kalashnikov e gridavano: «Giornalista vieni fuori, ti ammazziamo».
In Afghnistan Ettore Mo ha iniziato la sua avventura di giornalista, si mimetizzava tra i mujaheddin e viveva con loro. Non c’era alternativa per chi volesse vivere e raccontare quella tragedia. La guerra afghana è fatica, disagi tra freddi polari e canicole, marce di 30-40 giorni lungo sentieri, arrampicate e guadi, paura delle mine e degli agguati. Mo ha raccontato di città devastate, del rapporto tra donne e talebani, perfino di Alì, un bambino di 10 anni senza gambe, perse per colpa dei razzi. Quest’infanzia mutilata vagava per le strade, e le stampelle erano l’eredità più visibile di una guerra assurda. Attorno agli zoppi c’erano gli sfigurati, i ciechi. Mo scriverà: «La pace non si addice all’Afghanistan. Gli si addice la guerra, come la storia attraverso i secoli sta a dimostrare. Quali ne siano le ragioni, la sinfonia di guerra continua a rintronare nelle valli, e nessuno osa più illudersi che la pace sia in arrivo». Nel 2003, tornato a Kabul, tra la folla e i soliti invalidi il giornalista ha quasi la sensazione di trovarsi «in mezzo a gente quasi felice: anche se a ogni piè sospinto t’imbatti in una umanità più d’ogni altra afflitta da miserie secolari e di continuo affondi i piedi nell’immondizia e nelle fogne».
Poi sono stata il conflitto più assurdo e spietato del dopoguerra, la madre degli oltre 200.000 morti nella Ex Jugoslavia. Colpi tra case e ospedali, proiettili di cecchini e mitragliatrici. Periferie dell’odio, “il tutti contro tutti”. Nelle fosse della morte la vita scorre ancora lenta tra Mostar, Sarajevo e Srebrenica.
Tra le case sventrate e le macerie, scheletri anneriti di edifici coi tetti afflosciati sui pavimenti, Ettore Mo vive sotto piogge di granate. In quegli anni si commuove con la storia di Admir Balaban, rimasto per 11 giorni in una fossa tra i cadaveri e riemerso dopo la liberazione della sua città, e non dimentica le croci sulla neve dei 60 reporter e fotografi, amici e colleghi, uccisi in due anni e mezzo di guerra. «Che angosciosa monotonia raccontare questo Paese che un tempo si chiamava Jugoslavia: se lasci Sarajevo non devi camminare a lungo per trovare un paesaggio del tutto simile di distruzione e di morte». Tanti i pugni allo stomaco, e tanti anche i sensi di colpa: «Nessuno dei recenti drammi dell’umanità è stato trattato con tanta superficialità, e ce ne attribuiamo la colpa. Case distrutte, donne stuprate, bambini moribondi, il rogo di Sarajevo, l’ultimo ponte di Mostar che precipita, la desolazione. Ma ci è certamente sfuggito il senso, la ragione intima di questa mostruosità».
Ettore Mo è stato per vent’anni inviato speciale del “Corriere della Sera” in Afghanistan, Russia ed Ex Jugoslavia, ma anche in America Latina, nelle terre africane, in Oriente e nell’est Europa. Ancora oggi continua a girare il mondo in cerca di storie. In quei vent’anni ha battuto ogni angolo del pianeta per raccontare le guerre lontane e dimenticate, e con esse le umanità perse in mezzo al caos di ogni conflitto. Degli inviati di guerra oggi Mo è, in Italia, il più autorevole rappresentante. Con lui le sporche guerre non hanno più né ombre né veli, sono spiegate con pazienza, tenacia e fiuto giornalistico. Mo è un testimone oculare, interroga e fa parlare i protagonisti, scava tra le motivazioni di ogni evento e dentro le possibile conseguenze. I suoi articoli restano impressi nella memoria, lasciando sempre l’ultima parola alla speranza. Da testimone della storia aveva capito che il viaggio è lo strumento della condivisione, il mezzo per accendere la scintilla verso realtà lontane, oltre i nostri limiti e orizzonti quotidiani. «È legittima la curiosità di chi si chiede quali arcani motivi spingano certa gente a occuparsi professionalmente di un argomento angoscioso come la guerra, senza parteciparvi direttamente: ma è difficile dare una risposta onesta, priva di retorica. Più facile convenire che, una volta imboccata quella strada, sarà quasi impossibile abbandonarla: perché difficilmente altre più piacevoli esperienze riusciranno a coinvolgerti in modo così totale e a procurarti emozioni tanto forti».
Salve, sono la Speranza, e in questa storia ho preso le sembianze di una vecchia signora che viveva in India dal 1928, immersa in quel pozzo di sofferenza che è Calcutta, la discarica del mondo. Mi chiamavano Madre Teresa, un po’ curva nel mio sari bianco orlato d’azzurro, ma gli occhi vivaci e sereni, e il volto leggermente ruvido e legnoso, con le cicatrici che lascia il dolore. Una mattina di tanti anni fa, un Piccolo Grande Uomo di nome Ettore Mo venne da me, assetato di conoscenza e pronto a raccontare ogni tipo di umanità che accompagnavo nella sofferenza, affinché la dignità potesse essere una cosa concreta.
Ettore Mo non ha fatto una graduatoria sull’importanza delle opere di Madre Teresa (il padiglione dei moribondi, l’orfanotrofio, il lebbrosario), ma ha descritto la profonda sensibilità, la voglia di dare una via d’uscita a chiunque. Responsabilità, fatica, preghiere e azioni che non le hanno mai causato scoraggiamento, ma che hanno donato speranza e serenità ai malati lungo il percorso della malattia. Madre Teresa si muoveva in una sfera diversa: una religione per cui non esistono caste e differenze. Dopo il suo funerale, Mo scriveva: «Se le cose del mondo avessero un senso, Madre Teresa l’avrebbero dovuta portare al luogo della sepoltura su un rickshaw, e che dietro avrebbe dovuto marciare tutta la disperazione della vita che aveva tentato di sconfiggere, o anche i più poveri dei poveri, visto che ce n’è ancora una marea infinita, nonostante i suoi sforzi». Ettore Mo e Madre Teresa, immersi nelle sembianze comuni dell’umanità, fino a identificarsi con l’umana sofferenza e la povertà di tutti.
Ci sono persone che, prendendo in mano i suoi libri, hanno subito detto: «Sono argomenti un po’ “forti”, però». Si, sono storie che lasciano il segno quelle di Mo, in una parola, è la vita. Quello che succede, troppo spesso, al di là del nostro “piccolo e comodo” mondo, appena fuori le quattro pareti dei nostri castelli incantati, del miglior profumo o dell’abito più bello da indossare. E ogni volta che narrare sfonda questo muro di “ipocrita e ingenua inconsapevolezza”, ecco che il giornalismo è ancora un’avventura straordinaria.