Giovanna Zapperi

Riflessioni sul femminismo: Giovanna Zapperi e lo “schermo del potere”

Femminista, studiosa d’arte contemporanea (insegna all’École Nationale Supérieure d’Art di Bruges e svolge attività di ricerca al Cehta/Ehess di Parigi), Giovanna Zapperi ha pubblicato qualche mese fa, per Ombre Corte, Lo schermo del potere. Scritto assieme ad Alessandra Gribaldo, il libro offre un’interessantissima analisi del ruolo del femminile nel panorama mediatico italiano. Per un 8 marzo alternativo e lontano dai soliti cliché, abbiamo deciso di intervistarla, analizzando le tesi contenute nel saggio e spingendoci più oltre, fino a parlare di cinema, di movimenti femministi internazionali e dell’ambiente accademico italiano.

 

Ne Lo schermo del potere, assieme ad Alessandra Gribaldo paragoni l’immagine del femminile a un prisma capace di rifrangere la condizione marginale di altre “categorie” come quella del migrante, del precario, dell’omosessuale. Rispetto a queste, la donna gode indubbiamente di un’ipervisibilità mediatica (sebbene sia rappresentata per sterotipi). Credi che sia anche a causa di questa onnipresenza che oggi il femminismo è quasi un tabù?

Che la parola femminismo sia stata espulsa dal dibattito pubblico mi pare un fatto. Questo salta particolarmente agli occhi se osserviamo come le iniziative che più ricevono attenzione mediatica (a partire da “Se non ora quando”, fino alle recenti campagne contro la violenza sulle donne) si pongano in modo ambivalente rispetto al femminismo, presentandosi come movimenti di donne più che come iniziative femministe. Portare avanti un discorso femminista significa inevitabilmente posizionarsi in modo conflittuale, e il conflitto fa paura. Come abbiamo scritto nel libro, il problema sta anche nel fatto che il femminismo viene spesso additato come qualcosa di fondamentalmente inattuale rispetto ad una visione spoliticizzata dei rapporti tra i sessi, visti come finalmente liberati da “innaturali” ideologie. Qui il nodo è quello di una vulgata che reinterpreta la libertà sessuale in chiave liberista, allineandola con quella grande narrazione contemporanea che identifica la libertà con il libero mercato. In questo senso il capitalismo ha captato alcune delle istanze centrali del femminismo degli anni settanta mettendole letteralmente al lavoro: questo aspetto è emerso in modo particolarmente evidente dagli scandali sessuali degli ultimi anni del governo Berlusconi. Di fronte a questa narrazione, ogni intervento della generazione protagonista delle lotte femministe viene percepito come un appello a regole desuete, moralistiche eccetera. Tutto ciò è paradossale perché sono stati proprio i movimenti femministi a mettere al centro le questioni della sessualità, del desiderio e dei rapporti di potere: è un’operazione questa che ha l’effetto di neutralizzare le istanze più radicali del femminismo riconducendole ad una cornice rassicurante, quella della libertà di disporre del proprio corpo all’interno di un mercato.

Come risulta bene dal libro, la rappresentazione del femminile nel panorama massmediatico italiano riporta in auge una vecchia dicotomia: quella tra soggetto e oggetto. Le donne sono oggetto della rappresentazione, sono corpi plasmati per aumentare i livelli di share televisivo e bambole che confermano la virilità di qualche politico. Ma le donne sono anche soggetti, spettatrici, e proprio lo squilibrio percettivo del “vedersi viste” è il trauma caratteristico della condizione femminile nell’epoca dell’immagine. Sembra un impasse difficile da superare. Come credi che se ne possa uscire?

È difficile proporre strategie efficaci per contrastare il sessismo dell’apparato mediatico nelle sue diverse ramificazioni. Una delle questioni che abbiamo messo in rilievo nel libro è quella dell’ che ci premeva sottolineare è come la questione dell’autorappresentazione, per le donne, sia sempre una questione politica, nel senso che la necessità di porsi come soggetto attivo della propria immagine è, storicamente, un elemento nodale delle strategie femministe. Il problema che si pone è quello del rapporto tra l’autorappresentazione e quel complesso groviglio che possiamo riassumere con la formula “donna come immagine”: la femminilità non è un’essenza o un fatto naturale, ma piuttosto una condizione che si definisce proprio attraverso le sue rappresentazioni. Il punto, però, è che rappresentare se stesse è qualcosa di complesso, perché ci si deve inevitabilmente confrontare con un repertorio di immagini già esistente: l’autorappresentazione femminile non potrà mai essere estranea agli immaginari già esistenti, proprio perché ciò che chiamiamo “donna” non può darsi al di fuori dell’apparato di potere in cui le immagini giocano un ruolo così ingombrante. Come hanno scritto diverse teoriche femministe, soltanto una volta rigettata la nozione della donna come categoria indifferenziata, l’autorappresentazione può funzionare come uno straordinario processo di soggettivazione e di decostruzione dello stereotipo.

A proposito di autorappresentazione, cosa pensi di Vogliamo anche le rose, il documentario di Alina Marazzi? In questi ultimi giorni poi, si parla molto di Zero dark thirty di Kathryn Bigelow e della sua visione “al femminile” della caccia al terrorismo e a Osama Bin Laden…

Sì, ho visto entrambi i film, che sono davvero diversissimi. Direi anzi che forse tra le poche cose che hanno in comune c’è proprio il fatto che a realizzarli è stata una donna e che si concentrano su alcuni aspetti della storia recente visti attraverso uno sguardo femminile. Ma credo che le analogie si fermino qui, visto che il primo è un documentario realizzato con materiali d’archivio, il secondo è un film hollywoodiano a grande budget. La pellicola della Marazzi è un documentario basato su una serie di materiali di archivio degli anni delle lotte femministe: quello che mi ha colpito è il suo sguardo retrospettivo che però elude la nostalgia, nel senso che l’autrice cerca di capire ciò che quella stagione ha significato nella vita delle donne, attraverso la soggettività di chi la racconta, senza narrazioni preconfezionate. Da femminista, mi sembra però che il suo limite stia nella distanza che l’autrice assume rispetto a quella stagione, che risulta temporalizzata, lontana, non inquadrata da una prospettiva attuale. Ma evidentemente alla Marazzi questa prospettiva non interessava…

E di Zero dark thirty che mi dici?

L’ho trovato estremamente problematico, innanzi tutto per il modo ambiguo in cui è rappresentata la tortura. Certo, il film è per molti versi affascinante, soprattutto per il realismo con cui ricostruisce la fase finale della caccia a Bin Laden. Ma al di là del discutibile postulato su cui si basa il film, cioè che la tortura avrebbe condotto alla cattura di Bin Laden, ciò che mi ha lasciata perplessa è proprio il suo sottotesto “femminista”: una donna, sola e contro tutti, grazie alla sua determinazione arriva a stanare il capo dei terroristi. In questo senso si possono cogliere dei parallelismi tra la vicenda dell’eroina del film e quella della regista, affermatasi come unica donna nell’ambiente maschile e maschilista di Hollywood. Nel film, la “war on terror” americana è una sorta di braccio armato della giustizia immanente, e si ammanta di una legittimità progressista di cui il femminismo sarebbe un logico risvolto: in questo senso, il protagonismo e la determinazione femminile vengono implicitamente opposti all’oscurantismo islamico. La scena finale, in cui vediamo l’agente Maya in lacrime sull’aereo militare che la porterà a casa, “riposiziona” il personaggio all’interno dei codici tradizionali della femminilità, salvandola per così dire dalla “disumanità” che l’aveva contraddistinta fino a quel momento (l’insensibilità nei confronti della violenza, il suo essere ossessivamente e interamente votata ad una causa). È la solitudine a ricordarle (a lei e a noi che guardiamo) che in fondo anche lei è una donna.

Negli ultimi tempi si è parlato molto di femminicidio, e i media sono tornati a dar voce a movimenti e campagne internazionali: penso, ad esempio, alle mobilitazioni indiane contro la violenza e lo stupro, e al successo (soprattutto mediatico) di “One Billion Rising”. Secondo te, è positiva la visibilità acquisita rispetto a questa specifica tematica? Oppure trovi che la questione della violenza sulle donne sia stata affrontata ancora volta in termini banalizzanti?

Mi sembra che ci sia una differenza fondamentale tra le manifestazioni indiane di dicembre e l’evento del “One Billion Rising”. Quello che è successo in India è stato una riposta straordinaria ad un evento (ahimé) del tutto ordinario. La folla che ha invaso New Delhi per protestare contro l’ennesimo stupro è stata accolta dall’indifferenza, se non dall’aperta ostilità da parte dei governanti, e le manifestazioni sono state represse dalla polizia. Questo dice molto su quanto quel tipo di richiesta sia percepito come una minaccia rispetto all’ordine sociale. Mi sembra che non sia ancora chiaro se quel movimento avrà un qualche impatto sulla società indiana: spero che questo non si esaurisca nell’ottenimento di pene più severe per gli stupratori, ma che faccia parte di un processo di trasformazione più strutturale. Al contrario di ciò che è successo in India, “One Billion Rising” è un evento preparato negli anni, orchestrato da una fondazione con sede negli Stati Uniti, il cui successo deve molto all’emozione suscitata delle manifestazioni indiane. Tuttavia questo tipo d’iniziative mi lasciano perplesse per molti motivi, a partire dai rapporti nord-sud che presuppongono, fino alle modalità specifiche di rappresentazione che fanno leva su un immaginario che addomestica l’agire collettivo all’interno di comportamenti standardizzati. Detto questo, certamente all’interno di questi eventi si possano giocare dei processi di apertura e presa di coscienza. Una discussione con alcune donne che hanno partecipato attivamente all’evento, e che contestavano il mio punto di vista, mi ha reso chiaro che le cose sono più ambivalenti di quanto sembrino da fuori e che è sempre possibile aprire una breccia dentro un dispositivo che appare così totalizzante. Più in generale, la mia posizione rispetto a molte delle campagne condotte contro la violenza sulle donne ricalca le critiche mosse da alcuni soggetti femministi come il Laboratorio Sguardi sui Generis o il collettivo di Femminismo a Sud, che hanno sottolineato come queste campagne si focalizzino sulla costituzione di un soggetto-donna vittima, mentre ciò che appare invisibile sono le modalità relazionali che sottendono la violenza e soprattutto l’identità dei violenti, chiamati in causa soltanto in termini di devianza o di sottrazione. Mi pare che ciò che manchi sia una decostruzione della maschilità e della violenza come elemento strutturante dei rapporti tra i sessi.

Tornando a Lo schermo del potere, ho trovato particolarmente interessante la scelta dell’immagine di copertina: l’opera di Birgit Jürgenssen, Gladiatorin (1980), mi sembra forte e pregnante. Dato che ti occupi di arte contemporanea, ti chiedo: come va in quell’ambito per le donne?

Il mondo dell’arte non è molto diverso da molti altri ambiti della vita sociale e culturale, dominato dagli stereotipi di genere. La scelta dell’immagine di copertina per noi era però un modo di attestare dell’importanza del lavoro delle artiste per la nostra riflessione. Se infatti la storia dell’arte occidentale trova nella disparità di genere alcuni dei suoi miti fondatori (basti pensare a Pigmalione), è anche vero che nel corso del ventesimo secolo alcune artiste, confrontandosi con temi del corpo, dello stereotipo, della sessualità e dell’autorappresentazione, hanno messo in crisi una serie di modelli che governano la produzione e la diffusione delle immagini. D’altra parte, le storiche dell’arte femministe hanno decostruito le narrazioni dominanti della storia dell’arte: basti pensare al celebre (e provocatorio) saggio Perché non ci sono mai state grandi artiste? (1971), in cui Linda Nochlin dimostrava come la categoria di “grande artista” fosse una categoria sessuata. Negli ultimi dieci anni poi c’è stato un grande interesse per l’arte delle donne e in particolare per i rapporti tra arte e femminismo dagli anni Settanta in poi, con importanti mostre allestite in alcuni grandi musei, dal Metropolitan di New York al Centre Georges Pompidou di Parigi. Certamente questo interesse è in parte dovuto all’esigenza di storicizzare un momento particolarmente fecondo per le artiste come quello segnato dall’emergenza di un movimento femminista internazionale, ma secondo me c’è anche un’attualità di quelle pratiche che è emersa in questi anni e a cui ad esempio guardano molte artiste della mia generazione (nate negli anni Settanta) o più giovani, che hanno così la possibilità di collocarsi all’interno di una genealogia femminista.

E riguardo l’ambiente accademico? Tu lavori ed insegni tra Parigi e Bourges, dove ti occupi di gender studies dedicandoti, in particolare, alla produzione di genere nelle arti visive. È risaputo che l’ambiente accademico italiano non è propenso ad accogliere questo tipo di studi. Eppure il contesto italiano è stato fertile ed ha dato vita ad uno dei più interessanti filoni del movimento e del pensiero femminista: qui si sono formate – tanto per fare qualche nome – Lonzi, Cavarero, Muraro, De Lauretis. A cosa credi sia dovuta questa carenza del mondo universitario nostrano?

Difficile rispondere a questa domanda, soprattutto per chi come me vive all’estero da molti anni e non ha rapporti diretti con l’università in Italia: da questo punto di vista, però, la situazione in Francia è molto simile a quella italiana. A me sembra in realtà che in Italia ci sia una nuova generazione di femministe che si pone all’interno di un dibattito internazionale e che sta portando avanti un rinnovamento molto importante dentro al femminismo italiano. Poi c’è un problema più generale, che è legato al precariato all’interno dell’università, che rende queste posizioni strutturalmente più deboli. Sicuramente ha giocato un ruolo importante in quella che tu descrivi come una carenza il rifiuto di una parte consistente del femminismo italiano di creare dei centri universitari in cui le tematiche femministe potessero trovare uno spazio istituzionale. Mi riferisco alle studiose vicine al “pensiero della differenza”, la corrente egemone nel femminismo italiano negli Ottanta e Novanta. Se consideriamo che molte di queste donne sono esse stesse docenti universitarie e hanno una produzione che si colloca nella cornice accademica, mi sembra che il loro rifiuto dell’istituzione contenga elementi di forte ambivalenza. Senz’altro l’istituzione di dipartimenti universitari di studi femministi o di “women’s studies” pone il problema del confinamento delle istanze femministe dentro un ambito disciplinare, mentre io ad esempio sono convinta che il femminismo sia qualcosa di fondamentalmente trasversale, una chiave di lettura che attraversa le varie discipline. D’altra parte, però, è innegabile che la produzione femminista più interessante e articolata degli ultimi decenni si è avuta nel mondo anglosassone, perché lì si è creato un dibattito più aperto e transnazionale. Ecco, mi sembra che il rifiuto di porsi all’interno di un dibattito internazionale abbia rappresentato un forte limite per il femminismo italiano, che si è chiuso dentro alla sua specificità con il rischio di risultare provinciale.

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