Pier Vittorio Tondelli – Rimini

Durante la lavorazione di Rimini, Tondelli scriveva: «Il plot deve essere forte, una storia funziona se ha l’intreccio ben congegnato. Ho bisogno di far trame, di raccontare, di scardinare i rapporti tra i personaggi». È in questo senso che l’ambizione del testo pensato da Tondelli a cinque anni di distanza dal suo lavoro d’esordio, Altri libertini (1980), e a tre da Pao Pao (1982), veniva bollata ingiustamente dalla critica di allora come elaborata per il consumo, anziché riconoscerla per quello che era: il segno di una raggiunta maturità espressa per via di un intreccio di storie di ambiente e di costume drammaticamente profetiche. Correvano i controversi anni Ottanta, e Tondelli voleva fare di Rimini il corrispettivo italiano di Hollywood o di Nashville (argomento sul quale lo scrittore ritornerà più volte, come dimostra la seconda parte di Un weekend postmoderno, «Rimini come Hollywood»), un luogo del suo immaginario «dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide con le pasticche, ama trionfa o crepa».

L’io narrante è il giovane arrivista Marco Bauer, un cronista promosso a responsabile di redazione per la «Pagina dell’Adriatico», ma Rimini è anche la storia di Beatrix Rheinsberg, in Italia per cercare sé stessa e la sorella adolescente Claudia; o ancora, quella di Robby e Tony, due giovani cineasti in cerca di finanziamenti per realizzare un film. E c’è poi Bruno May, il giovane scrittore omosessuale in crisi esistenziale, e Alberto, un suonatore di sax per nightclub che Tondelli sfrutterà a pretesto per sondare quel dialogo tra musica e letteratura a lui tanto caro. Sei «eroi» e il senatore democristiano Lughi morto in circostanze non del tutto chiarite; per sfondo, una bolgia umana intrappolata sul palcoscenico di una vita segnata dalla ricerca del successo, lacerata dalla voglia di mondanità e dai suoi disordini personali.

È la “società dello spettacolo” di Guy Debord che si materializza nelle spiagge di nudisti, nelle discoteche e nelle balere romagnole, nei «non-luoghi» per eccellenza, in una continua oscillazione tra «l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà», realtà dove il grottesco assume le mille sfumature della vanità. Le descrizioni diventano visioni ed evocano quell’omologazione che è dietro come un’ombra, vestita di lustrini e accomodante. E la lingua, così espressiva e così lontana dai canoni della nostra tradizione, non fa che impreziosire ulteriormente queste pagine, fra le più significative della nostra letteratura contemporanea.

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