Gerbrand Bakker, in fuga dal rumore

Cantore dell’Olanda più rurale, di quei paesaggi assolati ed agresti fatti di natura, ritmi lenti e cose genuine, su cui, per contrasto, si stagliano cupi drammi familiari, Gerbrand Bakker è uno dei più interessanti scrittori europei in circolazione. Dopo il bellissimo C’è silenzio lassù, pubblicato in Italia nel 2009 (ma uscito in patria nel 2006), Iperborea ha recentemente dato alle stampe Giugno, ennesima riflessione sul dolore, la perdita e gli affetti che conferma la qualità di uno stile cristallino, quasi pudico, e più in generale di una poetica del quotidiano che non scade mai nella leziosità.

Quello che segue è il resoconto di una chiacchierata con Bakker, il quale ci ha parlato del suo peculiare sguardo sul mondo, prima ancora che delle sue ossessioni di autore e di lettore.

Ho iniziato la recensione di Giugno notando due caratteristiche peculiari della tua scrittura: un ritmo narrativo lento e l’attenzione, quasi ossessiva, per i piccoli particolari (il ritornello di una canzone, un vetro scheggiato)…

Credo che una scrittura lenta e l’attenzione per i dettagli siano elementi tra loro complementari. Più lento è il ritmo della scrittura, maggiore è l’attenzione ai dettagli. In effetti, credo che la vita si mostri nei piccoli particolari, più che nei grandi gesti. Soprattutto se i dettagli si uniscono in una storia: da lì comincia una ragnatela di significati. Credo nella lentezza, nel ritorno alle cose basilari, nel rifiuto dei toni alti, esasperati: odio la competizione (tranne quando facevo il pattinatore di velocità: allora era un’onesta gara uomo contro uomo, e il migliore vinceva). Credo nel non dover gridare ai quattro venti le proprie opinioni ogni volta, nel realizzare che le proprie opinioni non sono poi così importanti. In un certo senso, credo in una sorta di mansuetudine, quasi in un senso biblico, anche se non sono affatto un tipo religioso. Forse è tutto questo che porta ai dettagli, al guardare le cose piccole ma sempre così importanti.

 

Protagonista delle tue opere è l’Olanda rurale, fatta di lavoro nei campi, ritmi lenti, natura. È un Paese che esiste ancora, o la tua è solo nostalgia?

Esiste ancora, anche se meno che in passato. Le persone in campagna vivono ancora una vita semplice, scandita da ritmi lenti. C’è un sacco di gente che ha a cuore la natura e un paesaggio agricolo modellato dall’uomo. C’è anche un piccolo ma ostinato gruppo di persone che promuove l’agricoltura biologica e lo slow-food, e persone che vendono cibo e prodotti locali. Magari su piccola scala, forse in contrasto con la “grande idea europea”, con il denaro virtuale e un’economia basata su nulla che sia concreto, reale. Perciò, quell’Olanda è ancora lì (i miei genitori vivono sempre accanto alla fattoria dove sono nato, in cui abita mio fratello maggiore), ma al tempo stesso, dal momento che vivo ad Amsterdam, è qualcosa che nella vita di tutti i giorni mi manca.

In un certo senso, ho bisogno di queste cose nei miei libri, di questi paesaggi, perché voglio focalizzare l’attenzione sui dettagli, sulle cose vere, e in una grande città uno può facilmente lasciarsi sfuggire i dettagli e le cose vere. Parlando in senso figurato, voglio disfarmi del rumore.

 

Su questo sfondo agreste si consumano laceranti drammi familiari. Nei tuoi romanzi, la famiglia è spesso ritratta in termini negativi: solitamente è il luogo in cui si consumano rancori, solitudini, vendette. Penso non solo a Giugno ma anche, ad esempio, ad un altro tuo splendido romanzo, C’è silenzio lassù

Stranamente non è questo il modo in cui vedo la cosa. Vedo un sacco di amore tra i componenti di una famiglia. Non amore nel senso più normale e comune, ma un diverso e più difficile tipo d’amore. C’è l’amore che è come la melassa o lo sciroppo, un amore per il quale devi lavorare; o, dall’altro lato, un amore che arriva quando meno te l’aspetti. Adoro il concetto di “serendipità”: uno cerca qualcosa e, mentre cerca, più o meno per caso, trova qualcos’altro. E le persone che vogliono una cosa ben precisa (come Ada, la vicina del protagonista in C’è silenzio lassù) non sono ricompensate. Per tornare al libro, credo che la madre di Giugno ami tutti davvero tanto, al punto tale che questo amore rischia di divorarla.

 

In entrambi i libri, un incidente priva i protagonisti del fratello/sorella. Sappiamo che questo elemento è autobiografico, avendo tu affrontato in passato la stessa grave perdita. Ti chiedo: in questi casi la scrittura ha effettivamente un potere terapeutico? Riproporre su carta il dramma aiuta a sublimarlo in qualche modo?

Ah, questa è la grande domanda. Non credo che sia terapeutico, semmai aiuta a dare un significato alle cose. Mi sono reso conto che, nonostante tutte le trame dei miei romanzi siano solo fiction, in esse c’è un’enorme quantità di dettagli autobiografici. Ho bisogno di scrivere per capire me stesso e il mondo che mi circonda. Al tempo stesso, mi sono reso conto che anche i lettori, a volte, si sentono consolati o “toccati” dai mieli libri. Questo è grandioso, naturalmente, ma non è la ragione principale per cui scrivo. È una cosa complicata, scrivere. Oggi ero al telefono con Robert Vuijsje, che un paio d’anni fa ha firmato un bestseller [Alleen maar nette mensen, in realtà del 2008, N.d.R.], e il suo nuovo libro ha venduto quasi nulla. Come mai? Perché? Dove sono finiti i lettori? Dove erano, qui in Olanda, i lettori che hanno amato e comprato C’è silenzio lassù e trascurato Giugno? È una lotta continua tra lavorare, vivere, l’ego, il successo e il fallimento, l’attenzione dei media, il silenzio dei media. Ma soprattutto l’ego è una cosa grande e potente. Alla fine, tutto quello che accade ad uno scrittore finisce in un libro.

 

In Giugno, la morte di Hanne è il centro di gravità del racconto intorno al quale ruotano inesorabilmente tutti i capitoli, incentrati su epoche e personaggi diversi. Nel finale, la scrittura vi si immerge completamente, scegliendo però un punto di vista preciso, quello di Jan. Come mai questa scelta?

La parte focalizzata su Jan è la storia vera di quanto accadde nel 1969. Scegliendo di concentrarmi su di lui ho voluto suggerire che i suoi ricordi siano falsi. Il punto è che le persone non conoscono realmente cosa gli altri pensino o sentano: da questo punto di vista, siamo tutti soli (come il protagonista di C’è silenzio lassù). In uno dei miei ultimi libri, The detour [De omweg, pubblicato in Olanda nel 2010 e inedito in Italia, N.d.R], questo aspetto mendace è ancora più forte: le persone davvero mentono le une alle altre.

Ad ogni modo, credo che il motivo per cui abbia utilizzato tutte queste voci diverse e, in questo modo, reso alla fine Jan Kaan il personaggio principale del libro, risiede nel fatto che ho cercato di fare l’opposto di quanto fatto in C’è silenzio lassù, dove il lettore doveva fare i conti con un narratore in prima persona per tutto il tempo: lì uno non si allontana mai da Helmer van Wonderen. In Giugno, però, questa struttura nasconde anche un pizzico di ambiguità: è Jan che racconta la storia o c’è un narratore onniscente?

 

Uno dei tuoi tratti peculiari è l’attenzione alla caratterizzazione dei personaggi. Non mi pare, tuttavia, che ti interessi moltissimo l’intrigo psicologico: tendenzialmente preferisci osservare dall’esterno le tue creature. In questo senso, mi sembri più vicino a Carver che non alla letteratura russa dell’Ottocento…

Amo Carver. Credo di essere stato influenzato dalla sua scrittura, molto più che dagli autori russi, che, per altro, ho letto e amato quando ero giovane. Il fatto è che come credo che il mondo si mostri meglio nei dettagli, così penso che i personaggi possano essere tratteggiati meglio mostrando le loro azioni, piuttosto che con una descrizione psicologica. Quando leggo un libro non amo tutta questa psicologia. Credo che a volta sia un po’ noiosa, e nel peggiore dei casi una sottovalutazione del lettore. Il lettore è in grado di pensare da sé. Tutti i miei libri sono concentrati sull’atmosfera, su, diciamo, suggerimenti e ipotesi (i tedeschi hanno una parola migliore: “Ahnung”, traducibile più o meno con “presentimento”), piuttosto che su una storia. Non mi importa davvero delle storie. Non sono neanche un grande fan delle metafore: mi tolgono la voglia di leggere un libro. Non voglio dovermi soffermare su una metafora per minuti prima di capirla. Ma questo accade probabilmente perché sono piuttosto stupido…

Pur mancando l’episodio esplicitamente catartico, i tuoi libri lasciano trapelare l’idea di una qualche ricomposizione: come a dire, la vita va avanti…

Be’, la vita continua. È così, no?

 

Ho letto che C’è silenzio lassù sta per diventare un film. Sei stato in qualche modo coinvolto nella sceneggiatura o in qualche altra decisione artistica? Più in generale, qual è il tuo rapporto con il racconto per immagini?

Non ho avuto niente a che fare con lo script o ogni altro lavoro preparatorio. Sono uno scrittore e di come si gira un film non ne so nulla. Ma quando hanno iniziato le riprese, ho avuto un pensiero improvviso: “aspetta un attimo, probabilmente questa è una cosa che non accadrà con nessun altro dei tuoi libri”. Perciò ho scritto un’email alla regista, Nanouk Leopold, chiedendole se non potessi recitare una piccola parte. L’idea le è piaciuta, e alla fine ho interpretato uno dei due uomini che consegna il nuovo letto alla fattoria. Ero incredibilmente nervoso, ma alla fine è andato tutto bene. «È divertente», mi ha detto dopo Nanouk. «Ma non è questa l’intenzione, giusto?» ho replicato io. Mi ha detto di non preoccuparmi. E dopo ho preso parte anche al “making of” del film.

Sono sempre un po’ invidioso delle persone che fanno cinema. Uno immagina che sia sempre tanto semplice. Uno scrittore ha bisogno di così tante parole per creare la stessa immagine! Sono molto curioso di vedere com’è venuta la pellicola. Le persone mi chiedono: “Ma non sei preoccupato che il tuo libro possa essere trasformato in qualcosa che magari non ti piace?”. No, non lo sono. Perché io sono uno scrittore e Nanouk Leopold è una regista. E come scrittore uno non può perdere: se il film sarà un successo, ci sarà un’impennata nelle vendite; se il libro si rivelerà un fallimento (ma esattamente, cos’è un fallimento?), i giornali scriveranno che “il libro è migliore”.

 

(si ringrazia Ilaria Laici per il contributo)

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