Calexico – Algiers

La frontiera non è uno stacco netto, una linea di demarcazione che separa rigidamente due pezzi di terra. Le carte geografiche approssimano per forza di cose – mentono, se vogliamo. Perché la frontiera è un non-luogo, una specie di limbo in cui un Paese si stempera in un’altro progressivamente, lentamente. E dunque è grande la frontiera, infinita: è un’attitudine culturale, uno stato mentale. I Calexico in quello spazio di nessuno ci hanno eretto casa. Era il 1998 quando gli ex Giant Sand Joey Burns e John Convertino entrarono nella storia con The black light, un concept album sul deserto dell’Arizona e del New Mexico. Il disco ridefiniva il concetto di post-rock, aprendolo a soluzioni latin, delineando un’epica anche per quella soglia contesa tra desiderio e nostalgia che è il confine. Poi qualcosa s’è incrinato: una sorta di normalizzazione ha cominciato a farsi largo nella musica del combo a partire da Garden ruin (2006). Meno frammenti, meno polvere, meno sabbia e psichedelia; più canzoni, arrangiamenti, produzione. Più (indie)pop e (alt)country. Carried to dust (2008) confermava la svolta e Algiers s’adegua.

Anche qui il livello qualitativo non è sprofondato, però è evidente come i Calexico suonino oggi più ingessati. La loro musica è ingabbiata, il vento del deserto non soffia quasi più: manca quell’impressione di indefinitezza, di spazi immensi ed oscuri (perché interiori) che si provava ascoltando i bozzetti di The black light. Alla fantasia si sono sostituiti un solido mestiere ed un piglio più radiofonico, che si traducono in ballad delicate (Maybe on monday, Fortune teller) o in dichiarazioni eroiche fin troppo esplicite (Splitter, l’opener Epic). Ad accomunarle, si diceva prima, un gusto alt-country, il quale ha il torto di essere un pizzico generalista. Meglio, comunque, le suggestioni springsteeniane di Hush (nenia delicata tra pelli spazzolate e synth Moog) che non l’austerità cameristica di The vanishing mind o le inflessioni europee di Para (strizzata d’occhio ai dEUS). Ancor più intriganti, nel complesso, le deviazioni latin. Bella la title-track, in bilico tra malinconia e buio, e bella anche No te vayas (una collaborazione con Jairo Zavala), più sensuale e jazzata. Sinner in the sea, invece, evoca programmaticamente Cuba (l’idea di Burns era scrivere un pezzo che abbracciasse West Coast e L’Avana), ma si salva dall’effetto-cartolina per quel suo impennarsi spiritato a metà, che fa molto Nick Cave.

Algiers, insomma, è un disco per certi versi conservatore, di tenuta. Dai Calexico che registrano nella città che forse più di altre rappresenta il crogiolo delle culture, New Orleans (di cui l’Algiers del titolo è un quartiere), ci si aspettava di più. La classe, innegabile, e qualche buon numero tengono a galla la band. Per ora.

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