Michelangelo Antonioni – La notte

Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni) è uno scrittore ed un intellettuale. È sposato con Lidia (Jeanne Moreau). I due non hanno figli ed il loro rapporto è in crisi. Entrambi sono apatici, annoiati, stanchi, incapaci di comunicare all’altro il proprio malessere. La macchina da presa ce li mostra nell’arco di una giornata intera, divisa tra la visita in ospedale ad un amico malato terminale di cancro, il vagabondaggio di Lidia nel vecchio e povero quartiere in cui ha vissuto durante i primi anni di matrimonio, uno spettacolo di spogliarello in un night-club ed una festa nella villa dei Gherardini, una ricca famiglia di industriali.

Ne La notte (1961), settimo lungometraggio di Michelangelo Antonioni, gli avvenimenti si susseguono formando un tessuto narrativo rarefatto, quasi slegato: rifiutando il tradizionale concetto di intreccio, basato sulla logica hitchcockiana dell’effetto che presuppone sempre una ben precisa causa, il regista inanella una serie di sequenze apparentemente sconnesse l’una all’altra, secondo un procedimento inaugurato con L’avventura (1960) e poi diventato tratto peculiare del maestro ferrarese. Sullo sfondo, la Milano del boom economico, che Antonioni mostra sovraffollata di grattacieli, con le strade intasate di macchine, rumorosa, caotica e per questo capace di acuire il senso di disagio e solitudine dei protagonisti: Lidia, vittima di un marito che non la ama più e la trascura; Giovanni, «eremita intellettuale», prigioniero di un successo al quale ha sacrificato tutto, talento e affetti.

La_notte_(1960)_Antonioni

Antonioni, dunque, si serve della parabola dei coniugi Pontano per raccontare da un lato l’effetto disumanizzante dello sviluppo industriale e la crisi dell’intellettuale nell’Italia degli anni ’60, dall’altro quella «malattia dei sentimenti» che fiacca le relazioni e la vita di coppia. A tal proposito, non mancano le “distrazioni” da parte di entrambi: durante il party, Giovanni approccia la figlia dei Gherardini, Valentina (Monica Vitti), mentre Lidia si concede una breve (e casta) incursione notturna con uno sconosciuto. La ricomposizione finale (la donna perdona il flirt del marito e gli si concede) ha però il sapore di un’amara accettazione, derivante probabilmente in Lidia dalla presa d’atto di come la pietà sia l’unica risposta possibile al dramma che deriva dall’impossibilità di essere diversi da ciò che si è.

Crisi personale e crisi sociale si intrecciano e si alimentano dunque, in una spirale di dolore inespresso ed inesprimibile. Secondo capitolo di una tetralogia “esistenziale” aperta con L’avventura, proseguita con L’eclisse (1962) e conclusa con Il deserto rosso (1964), La notte è l’ennesima odissea antonioniana di due anime disperate alla ricerca di un senso in quel deserto di sentimenti, incomunicabilità, solitudine ed alienazione che è la moderna società post-industriale.

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