Stanley Kubrick – Full metal jacket

Ne La psicologia dell’inconscio (1943), Jung sosteneva la tesi secondo cui esista una «parte negativa» della personalità di ciascuno di noi, una sorta di sacca con dentro tutti i nostri lati, per così dire, meno edificanti. Se preferite, il “cuore di tenebra” conradiano, che aveva ispirato un altro capolavoro del cinema di guerra (e del cinema tutto), Apocalypse now. E Kubrick con Full metal jacket (tratto da un libro di Gustav Hasford del 1979, Nato per uccidere) ci racconta, né più né meno, di un’Apocalisse.

La prima parte del film è quella, celebre, ambientata nella base USA di Parris Island, in cui Joker, Biancaneve, Animal & co. sono sottoposti al duro addestramento del sergente Hartman, in realtà un lungo e spossante rituale di auto-annientamento che priva i cadetti di ogni identità (non a caso, vengono accantonati i nomi in favore di pittoreschi nickname). Ad un tratto, la simmetria geometrica e il lucido lindore che contraddistinguono le camerate si scontrano, come sempre accade in Kubrick, con l’esplosione della follia: il soldato Palla di Lardo, vittima di continue vessazioni da parte di Hartman, spara a questi e si uccide. Ad una seconda trance, di scena nella base di Da Nang e dintorni e costituita da una serie di frammenti narrativi apparentemente scollegati (l’incontro dei protagonisti con una prostituta, le interviste di una troupe TV ai soldati, un attacco USA condotto da un elicottero) segue l’atto conclusivo, lo scontro con il cecchino. Joker e la sua squadra si trovano ad affrontare un tiratore asserragliato in un palazzo in rovina nei sobborghi di Hue. Cowboy, amico di Joker, è ferito mortalmente prima dell’irruzione: desideroso di vendetta, il nostro finirà il cecchino (in realtà una ragazza), nel frattempo colpito dai compagni. «Sono vivo e non ho più paura» afferma allora Joker, anche voce narrante del film, mentre sullo schermo s’accampano le immagini delle truppe che marciano su un fondale di rovine fiammeggianti intonando la canzone di Topolino.

È in questa scena finale che risiede il senso dell’Apocalisse evocata prima: la follia omicida che alberga nel cuore dell’uomo contamina il mondo. Analogamente ai precedenti Paura e desiderio (1953), Orizzonti di gloria (1957) e Il dottor Stranamore (1964), Kubrick si serve dunque della guerra come espediente narrativo per mostrare la degenerazione nella violenza e nella pazzia, tratto comune fra i suoi personaggi. In un Vietnam artefatto, ricostruito vicino Londra (quasi a dire che non bisogna spostarsi troppo per incocciare nel Male), diurno ed insolitamente “urbano” (mancano le tradizionali scene di battaglia nella giungla), e dunque totalmente anti-naturalistico, il regista inglese ambienta l’ennesima tappa della sua personale esplorazione della dualità umana. Il sarcasmo anti-militarista (nerissimo) s’accompagna allo schema (già al centro di Arancia meccanica) che contrappone libertà individuale e normatività istituzionale: dallo scontro il singolo esce, neanche a dirlo, sconfitto e lobotomizzato, con tutto il carico d’orrore che ne consegue.

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