Cartoline “dark” da Bologna: Grazia Verasani

A pochi giorni dall’uscita del suo ultimo romanzo, Cosa sai della notte, edito da Feltrinelli, l’autrice bolognese Grazia Verasani ci ha raccontato qualcosa di sé e del suo rapporto con la scrittura. Donna che racconta le contraddittorie e delicate sfumature dell’universo femminile spaziando e commistionando generi, mai doma e sempre pronta all’esperienza della sperimentazione e della scavo nelle profondità umane, la Verasani è tra le narratrici più stimolanti del panorama letterario italiano.

Sembra che il noir in Italia sia oggi un filone particolarmente frequentato e prolifico. I tuoi esordi letterari avevano poco a che fare con questo genere, poi la svolta. Come e perché sei approdata al noir?

Ho sempre letto di tutto, e provato interesse per autori che sfuggono alle catalogazioni. Un esempio tra tutti: Patricia Highsmith. Il suo valore letterario è primario o parallelo alla “suspance”. Cito anche Raymond Chandler e James Ellroy. Il noir mi appassiona solo se posso infrangere delle regole di base, mescolando più generi tra loro, e scrivendo una storia “scura” esattamente come ne scriverei un’altra. Mi invento una bozza di trama e poi mi lascio andare. Sono estremamente gelosa della mia libertà di spaziare, di non pormi dei limiti. Poi saranno gli editori a scegliere cosa pubblicare e cosa no…

Il personaggio di Giorgia Cantini, l’investigatrice nata con Quo vadis baby?, è un personaggio di donna forte e indipendente, apparentemente il prototipo della donna emancipata. Al lettore però non nascondi le sue fragilità e pare che la stessa Giorgia non si faccia scrupoli a presentarsi al pubblico insonne, malvestita, in una scena addirittura con un maglione del giorno prima che puzza di sudore, o visibilmente triste. Mi è sembrata una scelta felice, questa di non mascherare le debolezze di Giorgia, personaggio che pare farsi beffa dello stereotipo della donna di successo, quella che si espone solo mostrando il suo profilo patinato. A maggior ragione se penso a quanto, negli ultimi tempi, l’idea femminista di autodeterminazione sia stata utilizzata come mero strumento consumista e si sia rigirata contro le donne stesse. Come ti poni, in quanto donna e scrittrice, nei confronti di queste tematiche?

Giorgia Cantini è una donna irregolare e anticonvenzionale, non c’è dubbio. Ha le sue ruvidezze e non nasconde i suoi punti deboli. È nata anche per raccontare come sono molte donne di oggi, di quell’età e con quel tipo di inquietudini (soprattutto in relazione ai sentimenti e a una solitudine di fondo che, spesso, è l’apoteosi di una sana ironia difensiva). È un personaggio che mi somiglia e che somiglia alle donne che incontro, lontane da certi stereotipi di “narrativa maschile”. Giorgia non è una donna che mette l’uomo e l’amore al centro di tutto. Ha paura. È fallibile, disarmata, ma non si piange addosso.

Nei miei romanzi, ci sono molte donne e quasi tutte sono “particolari” eppure normalissime. Scontano il retaggio di una mentalità ancora fortemente avversa alle loro potenzialità, non sempre riconosciute. E vorrebbero un mondo dove si smette di parlare di uomini e donne e si comincia a parlare solo di persone. In alcuni miei romanzi ho affrontato tematiche sociali come la violenza sessuale, ma ho sempre cercato di farlo senza scadere nel pamphlet sociologico o nelle ristrettezze di un realismo puramente descrittivo e sentenzioso, cioè di tipo moralistico. Credo fermamente però che ancora oggi una donna, per raggiungere certi risultati, e a parità di meriti, faccia il doppio della fatica di un uomo. La “società televisiva”, negli ultimi trent’anni, ha peggiorato le cose. Se non c’è cultura, non c’è buona politica. Se non c’è cultura, non c’è rispetto ma solo conflitto. Vanno ridiscusse le identità umane, a partire dalla forma mentis dei ragazzi, sempre più intrappolati dai falsi modelli mediatici. Retorico ma pur sempre vero…

Il tipo di morte violenta a cui ti approcci nei tuoi lavori (penso ovviamente al tema del suicidio in Quo vadis baby?, ma anche a quello dell’infanticidio che presenti nella piece teatrale From Medea) presuppone un profondo scavo psicologico e costringe il lettore a fare i conti con la sofferenza più cruda, eliminando qualsiasi possibilità di distacco. Anche qui, nulla di patinato… quanto è difficile per lo scrittore affrontare tematiche di questo tipo?

Ogni romanzo è un’avventura esistenziale. Per me è anche una specie di catarsi: cioè tento di liberarmi di alcune mie ossessioni, o semplicemente di esprimerle. Il suicidio non manca mai nella mia scrittura, è alla base delle mie esperienze umane e letterarie. Funziona così anche per l’omicidio, la morte “esterna”, come la chiamo io: o l’autogol del suicida mancato. Anche From Medea è questo: una rivolta contro tutto ciò che resta in superficie. Io tento solo di andare un po’ in profondità, di essere una carta assorbente del mondo così com’è: entro in empatia, affino sensibilità, vivo, amo, tutto qui.

La tua scrittura, soprattutto quella degli esordi, tradisce uno spiccato piglio autobiografico e tu stessa, in altre occasioni, hai detto che le persone e gli accadimenti che hanno costellato la tua vita sono punti di riferimento saldi su cui creare delle trame. Anche i tuoi personaggi si raccontano, spesso guardano al proprio passato, lo ripensano e lo mostrano al lettore. Perché rinarrare e rinarrarsi?

Sono abbastanza pudica da nascondermi nelle cose che scrivo. Tutto viene elaborato, filtrato, in funzione della storia che racconto. Delle mie esperienze personali cerco di ritrovare solo l’emozione originaria. Per questo, come lettrice, mi fido di più degli autori che si scrivono sulla pelle, come diceva Handke, tirando fuori ciò che conoscono meglio, anche a rischio di ripetersi. Comunque, cerco sempre di passare da un piano individuale a uno universale, se no mi accontenterei del mio diario. Il passato… be’… Faccio parte di una generazione che non si è mai emancipata da una sorta di esistenzialismo “alla francese”. Ho fatto più rimpianti che sogni, e di questo parlo. Sono contraria ai nostalgismi sterili. Se mi volto indietro è per vedere cosa è andato storto, e romanticamente so che non c’è riparazione: ma forse il bello è proprio questo.

 

A proposito di autobiografismo, Bologna, la città in cui vivi, è una presenza costante nei tuoi romanzi. La descrivi con precisione e spesso ti soffermi a riflettere su quanto è cambiata nel tempo. Sembra che l’epoca della Bologna come laboratorio per movimenti politici e culturali sia irrimediabilmente trascorsa. La tua è una Bologna in decadenza, che fatica a ritrovare la propria identità. La perfetta ambientazione per un noir, o no?

Non lo so. Bologna cambia mentre la racconto. Amo alla follia questa città, la conosco, ci litigo, ne detesto alcune forme di provincialismo, ne salvo la resistenza tenace a una certa idea di mondo e di comunità.

 

Eppure una certa vitalità, almeno dal punto di vista letterario, la tua città sembra averla conservata. Mi viene in mente l’attività di alcuni collettivi di scrittori che proprio da lì provengono e dai circoli bolognesi partono per lanciare le loro idee. Ad esempio, i Wu Ming e il fertile dibattito sul New Italian Epic. Come ti approcci a questa “nuova” Bologna underground?

A Bologna vivono molti scrittori. Ci si conosce un po’ tutti, ci si rispetta, a volte si fanno giochi di squadra. Ma ogni scrittore è irrimediabilmente solo. Solo perché scrive in una stanza. Solo perché ha un ego grande quanto la sua insicurezza. Sinceramente, sarò banale, ma siamo tutti battitori liberi che a volte si sono simpatici e altre volte no. Ci sono “ingiustizie” o perdite (penso alla morte recente dell’amico scrittore Stefano Tassinari) che ci vedono affiliati, e ci sono attestati di stima e di affetto che a volte stupiscono e fanno piacere. Personalmente, cerco di sbattermi un po’ per gli autori più giovani, quelli di talento. Mi fa enormemente soffrire che io abbia fatto fatica a “emergere” e che a loro sia spesso preclusa persino questa possibilità.

Cosa sai della notte è la tua ultima fatica. Giorgia Cantini ritorna ad investigare. Cosa ti lega a questo personaggio?

Tante cose. L’amore per le donne un po’ complicate. Per le sigarette che fumi quando non sai sostenere uno sguardo o una conversazione. Quel po’ di alcol che alleggerisce la tensione di un incontro. La paura di vivere a metà, per mancanza di coraggio. La tenerezza. L’orgoglio.

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