Grazia Verasani – From Medea. Maternity blues

«Ma non bene gli uomini sol per veduta giudicano, quando c’è chi aborrisce altrui, senza conoscerne l’animo a fondo, sol per vista, senza che torto n’abbia ricevuto». Euripide, Medea.

 

Grazia Verasani, autrice del best-seller Quo vadis baby?, è forse la scrittrice più rappresentativa del panorama noir italiano. Con From Medea. Maternity blues, sceneggiatura teatrale messa in forma di libro da Sironi e recentemente rimaneggiata per il cinema da Fabrizio Cattani, la nostra non abbandona le tinte fosche, ma estende il proprio background letterario lasciandosi andare al lirismo tragico di un’opera a voce multipla che sposta il protagonismo sulle esistenze infrante di un gruppo di infanticide.

Ti capita un giorno di uccidere tuo figlio, ritrovarti sbattuta su un trafiletto di cronaca nera e poi chiusa, insieme a “mostri” come te, in un centro di recupero. Le quattro “attrici” di From Medea vivono questa esperienza, la più dolorosa delle esperienze possibili.

Rina e Marga. Giovanissime e già donne a metà per aver ammazzato un pezzo di sé: i medici diagnosticano la sindrome da “maternity blues” , altrimenti detta, con espressione più prosaica, “depressione post partum”. Eloisa e Vincenza. Anche loro l’hanno fatto e non sanno bene perché: i medici semplicemente dicono che no, non tutte le donne sono fatte per essere madri.

Sbocciano dialoghi che, penosi e irriverenti, sono come fiori nutriti dalle acque più torbide dell’animo femminile. Dialoghi che condiscono giornate senza senso apparente, in cui, tra la luce di un’alba natale e il buio di una notte profonda, le protagoniste cercano di ridare sapore alla vita. Ma nel susseguirsi di crisi, sfoghi e confessioni nessuna elabora il lutto, nessuna sconfigge il fantasma del Senso di colpa, quello con la S maiuscola; solo ci si accontenta di trovare grazia, affetto e solidarietà nelle parole e nei gesti gonfi d’amore di un’altra assassina.

Grazia Verasani porta a galla le complessità che si celano dietro a un fenomeno arcaico e, purtroppo, profondamente umano come quello dell’infanticidio, invitando a rivedere la nettezza dei confini tra bene e male per non cadere in banali valutazioni. Perché in fondo ci vuole coraggio nel giudicare chi soffre di una pena pura e senza rimedio.

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