Clock Opera – Ways to forget

Due gli ingredienti alla base di Ways to forget, album d’esordio dei Clock Opera di Guy Connelly: il campionamento, arte postmoderna per eccellenza, e il rock più emozionale. Un grosso cortocircuito, insomma, quello alla base del full-lenght, che è, prima di tutto, dialettica tra analogico e digitale. La polarizzazione tra la meccanicità minimalista del sample da un lato, e lo spasmo elettrico di certa new-wave che incontra l’intimismo dell’alt-pop dall’altro, si risolve in dieci tracce briose, ricche di spunti, anche se, a guardar bene, meno entusiasmanti di quanto sulla carta non fosse lecito sperare.

Connelly e i suoi (Andy West al basso e alle chitarre, Dan Armstrong alle tastiere e Che Albrington alla batteria) masticano Arcade Fire ed Elbow (l’ariosa Once and for all), Peter Gabriel (l’electro-rock dalle vibrazioni funky di Man made) e gli ultimi Coldplay (la disco solenne di The lost buoys) con notevole disinvoltura e senza rinunciare ad una buona dose di personalità, ma finiscono col suonare un po’ artificiosi. La cura del sound e del dettaglio prendono un po’ la mano e rubano un pizzico d’anima alle partiture, che pertanto, talvolta, suonano persino programmatiche nel loro afflato epico (la martellante Fail better, altra citazione di Win Butler & co.). Malgrado un certo formalismo, episodi come quelli citati si fanno comunque apprezzare, grazie soprattutto ad una vena melodica di sicuro impatto.

L’elemento wave, presente un po’ ovunque, è esplicito nelle linee di basso della scattante 11th hour, mentre la tensione drammatica dell’album mostra le sue radici (Scott Walker, Bowie) in Lesson no. 7. Ma è quando il ritmo rallenta, e crolla la fitta rete di loop & sample, che si scopre un piccolo gioiellino d’intimismo folkie del calibro Belongings (Guy Garvey docet). La formula mostra un po’ la corda in White noise (vivacità electro-pop mediata da drone-music e glitch à la Fennesz) e nei sapori esotici di A piece of string: entrambi i brani erano contenuti e davano il titolo ai due 7” (2009 e 2010) che hanno preceduto la release di Ways to Forget. All’epoca, Clock Opera era un progetto solista del solo Connelly, e la cosa traspare in modo piuttosto palese. Parzialmente riuscita Move to the mountain, in cui pare di scorgere persino lo spettro di Springsteen (seppure sotto la consueta coltre di suoni “di laboratorio”).

Insomma, se qualcosa si può rimproverare all’LP è la sua incapacità di lasciarsi andare, di definire in modo più equo il rapporto tra forma e sentimento, struttura e urgenza comunicativa. In questo 2012 così avaro di sorprese, tuttavia, Ways to forget è più di un piacevole passatempo.

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