Matteo Garrone – L’imbalsamatore

Tassidermia, ovvero la «tecnica di preparare, a scopo scientifico, le pelli degli animali in modo da renderne possibile la conservazione, e di imbottirle dando loro l’aspetto e l’atteggiamento degli animali vivi» (Treccani). Un’arte antica. Un po’ macabra forse, ma per certi versi preziosa. Perché consente di perpetrare un’illusione: quella della vita dopo la morte, sconfiggendo così la solitudine di chi non riesce a rassegnarsi alla perdita, all’abbandono.

Peppino Profeta si guadagna da vivere così: impagliando corpi. E non solo di creature a quattro zampe o con ali e becco. Di tanto in tanto, dà una mano a qualche amico della camorra, riuscendo così a rimpinguare i propri guadagni. Un giorno, allo zoo, incontra il bellissimo Valerio, per il quale prova un’attrazione immediata. Il giovane, desideroso di imparare il mestiere, accetta di lavorare nella bottega dell’imbalsamatore.

Comincia in questo modo un legame ambiguo, morboso. Sullo sfondo dapprima di una Napoli desolata, squallida, periferica – affine a quella che Garrone ritrarrà più in avanti in Gomorra (2008) – e poi di una Cremona nebbiosa e fredda, Peppino e Valerio combattono, rispettivamente, una tremenda solitudine ed un’insoddisfazione profonda. Ciascuno adopera l’altro, più o meno consciamente, per evadere dal proprio inferno personale, e le cose sembrano funzionare, fino a che non spunta Deborah ed il bambino che porta in grembo, figlio di Valerio. Il legame tra i due uomini si spezza: l’epilogo è tragico, e non poteva essere altrimenti. Una sorta di tensione sotterranea percorre tutto il film, come la minaccia di una violenza perennemente sul punto di esplodere. Il che, unito alla deformità e alle caratteristiche somatiche esasperate dei personaggi (Peppino basso, Valerio alto e possente, Deborah con bocca e naso rifatti), accentua la dimensione onirica, irreale, quasi fiabesca della pellicola, che Garrone declina nella chiave di un’angoscia a tratti metafisica.

L’imbalsamatore, insomma, è un piccolo miracolo d’ibridazione, di sperimentazione cinematografica che, tuttavia, non rinuncia al gusto (classico) del racconto di una storia (per altro, ispirata ad un fatto di cronaca: l’omicidio di Domenico Semeraro, tassidermista gay ucciso dall’amante nel 1990). Nobilitato da una regia ingegnosa ma precisa, da una sceneggiatura (scritta da Garrone assieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) perfetta nella definizione di ambienti e figure, e dall’interpretazione straordinaria di Ernesto Mahieux (un Peppino premiato con il David di Donatello), il film segna la maturazione artistica di Garrone. La consacrazione definitiva, per il regista, arriverà con il già citato Gomorra ed il più recente Reality (2012), entrambi Grand Prix a Cannes.

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