Rufus Wainwright – Out of the game

Quando si parla di Rufus Wainwright è impossibile non essere colti dalla fastidiosa sensazione di essere al cospetto di un talento un po’ sprecato. Dopo l’ottimo esordio del 1998 e l’altrettanto valido successore, Poses (2001), il musicista americano, figlio dei songwriter Loudon Wainwright III e Kate McGarrigle, s’è un po’ perso per strada, vittima di un talento esagerato, ipertrofico, incapace di trovare il giusto equilibrio tra sensibilità cantautorale e grandeur orchestrale. Bizzarro concentrato pop di opera e Tin Pan Alley, il trentanovenne di Rhinebeck, New York, ha troppo spesso ceduto alle lusinghe di una teatralità e di un romanticismo un po’ scontati, che ne hanno penalizzato la scrittura, trasformando album ambiziosi come Want one (2003), Want two (2004) e Release the stars (2007) in occasioni mancate.


Out of the game occupa un posto particolare nella discografia di Wainwright. Il lavoro mostra infatti come Rufus abbia superato il tragico evento della morte della madre, che aveva ispirato il cupo All days are night: songs for Lulu (2010). La differenza di tono è evidente: sebbene lontano da certi eccessi un po’ kitsch, il nuovo full-lenght recupera melodie ariose e arrangiamenti complessi, laddove il predecessore indulgeva a un tetro abbandono, con piano e voce ad intonare struggenti (e un po’ monocordi) lamenti di disperazione. Il merito, però, non è solo del tempo che passa e lenisce le ferite: le gioie della recente paternità (omosessuale dichiarato, Wainwright ha avuto una bambina con Lorca Cohen, figlia di Leonard) e il lavoro dietro la consolle di Mark Ronson (probabilmente il producer più gettonato del momento) hanno contribuito a propiziare il cambio di mood.


Rimane però un cruccio, quello di sempre: anche stavolta, il colpo rimane parzialmente in canna. La matrice dell’album è l’AOR anni ’70 (ELO, Elton John, Todd Rundgren), con spruzzate di soul bianco. Le intuizioni da incorniciare non mancano: la glam-ballad di Rashida, tra il Bowie di Aladdin Sane, Prince e Freddie Mercury, il funky da coctail-lounge di Barbara, memore di Brian Wilson, la liricheggiante e malinconica Montauk, l’intreccio tra i Beatles (Sgt. Pepper) e i Queen di Welcome to the ball, l’elegante pop della title-track e il tenero valzer di Song of you si collocano tra le cose migliori mai scritte da Wainwright. E il punto è proprio questo: perché se il gusto (melodico, armonico) è fuori dal comune, lo sviluppo è un po’ timido, quasi che Rufus s’accontentasse. Le altre tracce, poi, suonano decisamente più prevedibili: il folk di Sometimes you need, Perfect man (propulsa da beat r’n’b), l’elettronica di Bitter tears, Jericho (un’imitazione di Elton John), il country dal retrogusto jazzato di Respectable dive (con la chitarra di Nels Cline dei Wilco) e la lenta chiusura di Candles (un requiem per la madre in cui svettano le fisarmoniche), per quanto eleganti, faticano a strappare un brivido.


A conti fatti, dunque, Out of the game mantiene meno di quanto non prometta. Rispetto al passato c’è più equilibrio e meno barocchismi inutili, ma purtroppo permane invariata anche la spiacevole incapacità di dar sfogo a un potenziale che sembra davvero enorme ma di cui s’intravvede, a tratti, solo qualche (piacevole) bagliore.

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