Killing Joke – MMXII

Jaz Coleman e la sua gang ne hanno combinata un’altra delle loro. Eccoli di ritorno, infatti, con MMXII, dopo appena due anni da Absolute dissent, che aveva sancito la reunion della band nella line-up classica (Coleman alla voce e alle tastiere, Kevin “Geordie” Walker alla chitarra, Martin Glover Youth al basso e Paul Ferguson alla batteria). Proprio quella che, con l’omonimo debutto del 1980, regalò alla storia del rock una delle sue pietre miliari, capace di fondere sotto le insegne di un sound che anticipava le nevrosi di Sonic Youth e soprattutto Nine Inch Nails, il l’art-punk dei Pere Ubu, la gothic-wave di Joy Division e Siouxsie, l’hard-rock e la musica industriale.

Se volete farvi un’idea anche soltanto parziale della natura della band inglese, soffermatevi un attimo sulla copertina: vi è ritratta, in lontananza, una lugubre centrale nucleare, dalla quale si levano ampi e minacciosi cumuli di fumo denso, poi una landa desertica e infine, in primo piano, un teschio. Il tutto, insomma, denuncia una percezione della Fine che non lascia scampo. Un riassunto perfetto di ciò che i Killing Joke hanno sempre fatto: cantare l’Apocalisse. Senza nessun compromesso. E così, eccoli ancora una volta cimentarsi nel loro gioco preferito. Fema camp, scandita da un ritmo quasi robotico e dalla chitarra pesantissima di Walker, che ben si interseca con le glaciali linee del synth, si attesta meritatamente tra i momenti migliori dell’album. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Glitch e Corporate elect (la più rock dell’intera raccolta, sorta di rielaborazione della celebre The wait, contenuta nell’esordio). Per il resto, il full-lenght procede tra scosse ritmiche dance e teutoniche sfuriate industrial, intonando l’ideale colonna sonora del Caos e della Distruzione. Del resto, bastava già l’opener Pole shift per rendersi conto delle atmosfere che si respirano. Più leggera In cythera che, con il suo beat piacevole e coinvolgente, tradisce influenze Eighties-pop.

Il limite principale del disco, a voler essere pignoli, è da ricercarsi nella ostinata fierezza con la quale la band continua a proporre la propria formula senza discostarsi troppo dal canovaccio collaudato. Tuttavia, la personalità e la forza evocativa delle partiture sono fuori discussione. I fan, dunque, possono stare tranquilli: anche stavolta l’inferno è servito.

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