Alexander Payne – Sideways. In viaggio con Jack

Ci ha un po’ delusi l’ultimo Alexander Payne. Paradiso amaro, uscito in Italia nel corso di quest’anno e in lizza anche per la categoria “Miglior film” ai recenti Academy Award, c’è parsa un’operina graziosa ma innocua, penalizzata da qualche lungaggine e da una certa prevedibilità dell’insieme. Nell’osservare la parabola di Matt King, avvocato alle prese con la scoperta del tradimento della moglie (in coma irreversibile), una figlia ribelle e un lembo di terra incontaminato alle Hawaii del valore di milioni di dollari da vendere ad una società per una grossa opera di edificazione, la mente correva inevitabilmente al gioiellino del cineasta statunitense, Sideways, risalente a ben otto anni fa.

Le somiglianze tra le due pellicole sono tante. Per cominciare, in entrambi i casi al centro delle vicende ci sono due uomini in crisi, due individui qualunque (“everyman”, direbbero gli anglosassoni) il cui microcosmo finisce in frantumi da un momento all’altro. In Sideways è Miles ad essere depresso a causa del divorzio dalla moglie e dei costanti rifiuti che le case editrici oppongono al suo romanzo. Questi, in occasione del matrimonio del suo migliore amico, Jack, attore fallito e inguaribile donnaiolo, decide di organizzare una piccola vacanza, una settimana di svago tra i vigneti della California e i campi da golf. Quello che dovrebbe essere l’ultimo assaggio di libertà prima delle nozze, tuttavia, si trasforma in un viaggio interiore. Negli splendidi paesaggi assolati della Santa Ynez Valley emergono lentamente, tra una degustazione di Pinot e un assaggio di Merlot, le fragilità di Miles e Jack. Il primo, in particolare, schiavo dello Xanax e ancora aggrappato al ricordo di un rapporto coniugale miseramente fallito, rappresenta il centro focale della narrazione e, insieme, il portatore di un messaggio di riscatto. L’incontro con l’incantevole Vera sarà il grimaldello che scardinerà le ansie e le insicurezze di questo timido ed impacciato antieroe, dandogli così la forza di chiudere i conti con il passato e cominciare una nuova vita. Parimenti, il casinista Jack, al termine di una divertentissima disavventura (una notte di sesso con una cameriera abbordata in locale, bruscamente interrotta dall’arrivo del marito di lei), si renderà conto della reale portata dell’amore che prova per la futura moglie, che dopo l’incontro con Stephanie (amica di Vera e come lei dipendente di un’azienda vinicola) aveva pensato di lasciare.

Payne mette in scena una storia di ambizioni fallite, sentimenti delusi, insicurezze e rinascita tramite il ricorso alla struttura del road-movie e con uno sguardo disincantato, sempre in bilico tra malinconia ed ironia. Esattamente come in Paradiso amaro. Solo che qui il regista calcola alla perfezione i tempi ed evita di scadere nell’autoindulgenza, mescolando sapientemente una comicità garbata, mai grossolana, con la giusta dose di dramma esistenziale, che non sfocia mai nel sentimentalismo noioso o nel patetismo. Un cinema “indie”, insomma, con tutte le caratteristiche del caso (piglio minimal, atmosfere raccolte, regia sobria), eppure capace di evitare l’irritante manierismo di certe produzioni à la Sundance Festival grazie ad uno stile personale, magari non originalissimo, ma a suo modo poetico.

Un piccolo, grande film, insomma. E non solo per via di una sceneggiatura praticamente perfetta (scritta da Payne con Jim Taylor, con cui aveva collaborato già nel 2002 per A proposito di Schmidt, e ispirata all’omonimo romanzo di Rex Pickett): a pesare in positivo sull’economia dell’opera c’è anche l’interpretazione di Paul Giamatti, qui al suo primo ruolo da protagonista, capace di fare del suo Miles una maschera tragica e ridicola al tempo stesso, umanissima nel suo smarrimento, nella sua sofferenza.

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