David Fincher – Millennium. Uomini che odiano le donne

Film di mestiere per David Fincher. Ma che mestiere. Il regista americano, reduce dal successo di critica e pubblico di The Social Network (2010), s’è cimentato con la trasposizione cinematografica del best seller di Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne (2005, pubblicato in Italia da Marsilio due anni dopo), primo capitolo della “trilogia Millennium”. Certo non ha corso molti rischi, vuoi per la scelta del soggetto (per altro già collaudato sul grande schermo: è del 2009 la rilettura di Niels Arden Oplev), vuoi per un racconto che non si discosta per nulla (o quasi) dal romanzo. Ciononostante, ne ha ricavato un’opera affascinante, che brilla di una luce sinistra, fincheriana al cento per cento.

 

Tra l’universo dello scrittore svedese (scomparso nel 2004) e quello del cineasta di Denver, Colorado, le consonanze ci sono, eccome, e la pellicola non fa altro che portarle a galla. In The Girl with the Dragon Tattoo, incentrato sulla figura del giornalista finanziario Mikael Blomkvist (Daniel Craig) e della hacker Lisbeth Salander (Rooney Mara), i quali indagano per conto dell’anziano industriale Henrik Vanger (Christopher Plummer) sulla scomparsa dell’adorata nipote Harriet (Joely Richardson), presumibilmente assassinata quarant’anni prima, compaiono una serie di temi cari al regista. Tanto per cominciare, l’ossessione. Il cinema di Fincher è un cinema di ossessioni, di nevrosi metropolitane: ossessionati, infatti, sono tutti i suoi personaggi, chi in un modo chi in un altro: i Doppelgänger Norton/Pitt di Fight Club (1999), il Jake Gyllenhaal/Robert Graysmith di Zodiac (2007), lo spietato John Doe di Seven (1995). A quest’ultimo, Uomini che odiano le donne si lega per i riferimenti biblici alla base di alcuni efferati delitti, compiuti in passato da un serial killer proprio sull’isola abitata dal clan dei Vanger. Solo che stavolta l’indagine, per quanto complessa, non è una caccia al fantasma (come in Zodiac): l’assassino ha un volto e un nome, nascosto ovviamente dietro le sembianze di un capitalismo dal sapore antico ma non per questo più nobile.

 

Ancora una matrice anti-sistema, insomma, nel cinema di Fincher. I Vanger sono i relitti di una Svezia industriale spazzata via dagli astri nascenti della finanza, cinici e corrotti (il losco Hans-Erik Wennerström, che ha costretto Blomkvist alle dimissioni dalla testata per cui lavora, “Millennium”, a causa di una condanna per uno scoop rivelatosi falso) ma non meno dei loro “progenitori”, i quali celano tra le pieghe di un’aria aristocratica di perbenismo e raffinatezza un grumo di squallore, miseria morale, perversione, violenza. Come nel romanzo di Larsson, Fincher segue parallelamente i percorsi dei due protagonisti, e dunque anche della Salander, vero centro focale del racconto che si snoda nel corso dei tre libri. Il personaggio interpretato da un’ottima Rooney Mara consente ad entrambi una disquisizione sulla brutalità insita anche nelle pieghe del welfare state nordeuropeo, da sempre un modello per certe democrazie occidentali (Lisbeth è vittima di un tutore che abusa di lei a la stupra, fino alla terribile vendetta della ragazza). Ma se Larsson ne fa un discorso marcatamente socio-politico, Fincher si limita a “registrare” l’evento come l’ennesima attestazione della ferocia del mondo.

 

L’ambientazione nella fredda (ed immaginaria) Hedestad e le tinte gotiche/horror della trama accrescono il fascino dell’opera, che il regista filma con innegabile maestria, non rinunciando, ad esempio, ai classici montaggi alternati e flashback che ne costituiscono uno dei marchi di fabbrica. Ottimo il cast (la già citata Mara, ma anche Craig, Plummer e Stellan Skarsgård, nei panni di Martin Vanger) e la colonna sonora firmata, come per il precedente The Social Network, dalla coppia Reznor/Ross. Attendiamo notizie di eventuali seguiti.

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