Roberto Faenza – Un giorno questo dolore ti sarà utile

Faenza l’americano. E sì perché Un giorno questo dolore ti sarà utile per location, forze produttive in campo (una parte delle quali, in effetti, anche italiane) e stile, è un film irrimediabilmente “made in USA”. Il che, sia chiaro, non è un difetto. Del resto, non è la prima volta per il regista e sceneggiatore torinese sbarca oltreatlantico: complice lo sferzante Forza Italia! (documentario del 1978 sul potere democristiano e il falso mito del boom economico), andato incontro a problemi di censura (come del resto, dieci anni prima, l’esordio, H2S, incentrato sul tema ribellione alla società capitalista), il nostro, ad un tratto, preferì cambiare aria. Negli USA diresse Copykiller (1983) e in seguito cominciò a lavorare in giro per l’Europa, realizzando, tra gli altri, Mio caro dr. Gräsler (1991) in Ungheria, Jona che visse nella balena (David di Donatello 1993 ex aequo con La scorta di Ricky Tognazzi) tra Olanda e a Bergen-Belsen e Sostiene Pereira (1995) in Portogallo.

Tutte le pellicole citate (ed altre) sono accomunate, oltre che da affinità stilistico-tematiche, anche dal fatto di essere tratte da libri. Non sfugge a questa regola anche l’ultima fatica del cineasta torinese: Un giorno questo dolore di sarà utile è infatti la trasposizione per il grande schermo dell’omonimo romanzo di Peter Cameron, pubblicato per la prima volta nel 2007 (in Italia da Adelphi).

Grande desiderio di Faenza, da sempre, è stato quello di portare sul grande schermo Il giovane Holden. Fu proprio Salinger in persona ad opporsi: «non si può fare un film da un libro scritto in prima persona, la voce narrante è anticinematografica», disse il grande scrittore e il progetto non si concretizzò mai. La voglia di raccontare una storia di ribellione e crisi adolescenziale era evidentemente un’esigenza particolarmente avvertita, soprattutto in un’epoca di “no-global”, “indignati” e precari che rifiutano in blocco un sistema che egli stesso, in passato, ha messo alla berlina nelle sue pellicole. Per questo, la lettura del romanzo di Cameron è stata provvidenziale.

Nella vicenda di James Sveck, giovane newyorkese che si oppone all’idea di andare all’università per rifugiarsi in una casa di campagna a leggere libri, c’è quell’idea di opposizione, di rifiuto di un modus vivendi che appiattisce, omologa, schiaccia l’individualità. Accusato di “anormalità” per la sua incapacità di integrarsi nel mondo, il protagonista ribatte che è il mondo stesso ad esser malato: del resto, la sua famiglia, (una madre che colleziona mariti, un padre con l’ossessione dell’eterna giovinezza e una sorella che s’innamora costantemente di uomini che hanno il doppio della sua età) non fornisce esempi incoraggianti in tal senso. Solo Nanette, l’anziana ed anticonformista nonna, e la terapeuta Hilda Temple riusciranno a far comprendere a James, sebbene da prospettive diverse, la necessità di non chiudere le porte alla vita e di inseguire pervicacemente i propri sogni.

Faenza imbastisce uno spettacolo scorrevole, elegante, sorretto da dialoghi ben scritti e dall’ottima performance del cast di attori, in particolare del protagonista, Toby Regbo, giovane promessa del cinema inglese. L’eccessiva fedeltà al romanzo (di cui, però, non si può dire che non colga il nocciolo essenziale) e uno stile filmico-narrativo non propriamente incisivo penalizzano un po’ la pellicola, la quale, tuttavia, si attesta su livelli di assoluta dignità, raccontando una bella parabola di formazione sulle difficoltà di crescere e trovare il proprio posto nel mondo.

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