George Clooney – Le idi di marzo

Le idi di marzo: titolo proverbiale per l’ultima fatica registica di George Clooney. La storica data, infatti, è ormai sinonimo di tradimento, giacché la si ricollega ad un evento storico di straordinaria importanza: la congiura che, il 15 marzo (per l’appunto “le idi”, secondo il calendario romano) del 44 a.C., portò all’assassinio di Giulio Cesare. La quarta pellicola diretta e interpretata dall’ex dottor Ross di ER, tuttavia, affronta sì il tema dell’inganno, della doppiezza, ma in un senso che trascende il personale e riguarda, semmai, l’etica. Al centro del racconto, il governatore Mike Morris, democratico liberal e “obamiano” (cattolico non praticante, pacifista, pro-aborto, matrimoni gay e tecnologie “pulite”, contrario alla pena di morte), il quale è impegnato nelle primarie che dovranno decretare il prossimo candidato alla presidenza degli Stati Uniti. La sfida, in particolare, si svolge in Ohio, stato tendenzialmente ostile agli esponenti del partito dell’asinello. Lo staff del governatore è composto da due guru, l’esperto e pragmatico Paul Zara e il giovane ed idealista Stephen Meyers. È quest’ultimo, convinto sostenitore di Morris e della sua politica (ha «sposato la campagna»), a scoprire uno scheletro nell’armadio del proprio candidato: Molly, una giovane stagista con cui ha avuto una relazione e che ora aspetta un bambino.

Dicevamo del tradimento, all’inizio. E ne Le idi di marzo esso è molteplice. In primis, c’è la politica: ipocrita, bugiarda, rinnega quei valori che si ostina a proporre davanti alle telecamere in nome della vittoria sull’avversario e della conquista dello scranno più alto. E questo indipendentemente dal campo in cui si gioca (Clooney è un democratico convinto). C’è poi la stampa, la quale, ben lungi da essere il mastino che alita sul collo del potere, si presta all’inganno, alla manipolazione, al doppio gioco. Ed infine c’è Meyers. Fatto fuori dallo staff di Morris proprio da Zara, che non aveva informato di un colloquio riservato avuto con Tom Duffy, il capo della campagna elettorale dell’avversario del governatore, il senatore Ted Pullman (una questione di lealtà anche qui, insomma), il giovane tira fuori gli artigli: ricattando Morris, riesce a farsi riassumere e a far cacciare il suo mentore.

Myers, insomma, si trasforma esattamente in ciò che non sarebbe mai voluto diventare: un altro squalo assetato di vittoria, che maschera la sua brama dietro il desiderio di portare al successo l’uomo “giusto”, colui che può cambiare (?) le cose. Non è molto dissimile, insomma, da quello che, all’inizio della pellicola, è il suo opposto, Duffy, intelligente, cinico e manipolatore.

Clooney, insomma, si serve della struttura del thriller politico virato noir per raccontare una storia di formazione e, al tempo stesso, riflettere sulla crisi della democrazia e della politica, palude vischiosa in cui “non ci sto” è una frase buona solo per le prime pagine e l’idealismo s’inabissa senza colpo ferire, sepolto da un cumulo di squallore, bugie, accordi sotto banco e compromessi eticamente discutibili. George, bravo sia davanti che dietro la macchina da presa, affida a sé la parte dell’ambiguo Morris, lasciando a tre interpreti di razza come Paul Giamatti, Philip Seymour Hoffman e Ryan Gosling i ruoli di Duffy, Zara e Meyers, e imbastisce un racconto (ispirato alla pièce teatrale di Beau Willimon, Ferragut North) dalla struttura classica, brillante e sobrio al tempo stesso, tanto nello script che sul piano filmico, e contraddistinto da un tono gelido, che chiude la porta ad ogni ottimismo. Così va il mondo, insomma: questa è la politica. Niente di nuovo, in fin dei conti. Ma quello di Clooney non è qualunquismo o moralismo spiccio, semmai un’analisi dello stato attuale delle cose, tanto lucida e implacabile che, alla fine della pellicola, non si può non avvertire un senso di disagio.

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