Bachi da Pietra – Tornare nella terra

Dialettica degli opposti: il blues delle origini, quello passionale e luciferino del delta (Robert Johnston docet) e, subito dietro l’angolo, la sua negazione, un’astenia paralizzante, che sfrangia le dodici battute canoniche, le sfibra, avvolgendole in una bruma tetra. Bachi da Pietra è il nome del progetto di Giovanni Succi (ex Madrigali Madri) e Bruno Dorella (già Wolfango, ora Ovo e Ronin), e dal nome già qualcosa s’intende. La musica del duo, infatti, aspira alla vita, ma, conscia dell’impossibilità di raggiungerla, si limita ad evocarla. Sanno di non potersi schiudere in farfalla, le nove tracce, e così blaterano oziosamente di sangue, carne, sperma, battaglie e guerra, prigioniere di una nostalgia da fantasmi, da non-morti.

La terra in cui si vagheggia il ritorno, insomma, è in realtà un ventre arido, che partorisce aborti di “musica del diavolo” misti a residui di post-rock, psichedelia e no-wave. Pulsazioni scarne e arpeggi minimali fanno da tappeto per le elucubrazioni di Succi, il cui cantato è sempre ai limiti dell’intelligibile, e dunque tutt’altro che Solare. Verme è, nomen omen, strisciante, subdola, ha la vitalità di uno spettro: quel suo verso, che parla di «organi interni ostinati a pulsare», è esemplificativo del moto puramente condizionato, meccanico, privo di reale volontà, che anima le partiture tutte. La strumentale Zolle accenna a qualche colore (un po’ jazz, un po’ flamenco), ma l’anemia, alla fine, ha la meglio. Prostituisciti, splendida e dolente sin dall’incipit («una stanza vuota per starci morto e solo / così si muore uomo / in un giorno qualsiasi»), verso il finale si anima di cacofonie, prorompendo in qualcosa che solo per dinamica è assimilabile ad un urlo: la tensione emotiva, però – la vita, si diceva prima – è prossima allo zero (malgrado anche una chiusura con passo quasi funky).

Si vaga, insomma, in un paesaggio rugginoso di rovine post-industriali: siamo nel pieno deserto della civiltà, ai margini di ogni mondo possibile. La spoglia litania di Aprile D.C. è cristallizzata in una veglia dolente («si barcollava nel sonno di un microcosmo diurno soli e senza mai dormire»); 2:40 è poco più di un bisbiglio lugubre, ultraterreno («nulla è più vivo di un fantasma»), perso tra il ricordo e l’allucinazione da sbronza.

C’è, insomma, in queste tracce, una tensione spaventosa e subdola, una spinta centrifuga che risucchia come un buco nero, prosciuga di ogni senso. Eccola la vera forza di questi Bachi da Pietra, che impedisce a Tornare nella terra, malgrado la (voluta) monotonia cromatica, di precipitare nella noia. Un esordio che apre a possibilità davvero intriganti.

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