The Black Keys – El camino

Dalle parti dei Black Keys le cose non cambiano mai troppo. Chitarra e batteria hanno mantenuto, nel corso degli anni, quel sapore crudo e ruspante che non concede nulla a contorti e lambiccati intellettualismi. L’attitudine pura e rabbiosa di Daniel Auerbach e Patrick Carney ha fruttato album come Thickfreakness (2003), Rubber factory (2004) e Magic potion (2006), luccicanti affreschi di buon gusto e creatività, orogliosamente sconnessi rispetto ad un palcoscenico musicale infiacchito da effimere mode stagionali.

El camino, settimo disco in studio della band americana, è un altro passo verso la direzione che porta alle radici del rock’n’roll. Un viaggio, come testimoniato dal furgone (cuore pulsante del vagabondaggio on the road di qualsiasi band che si rispetti) immortalato sulla copertina. Certo, l’impasto musicale che ne scaturisce è sempre più professionale e meno casereccio: sono finiti i tempi in cui il duo di Akron registrava le proprie canzoni su un vecchissimo registratore a otto tracce. Anche questa volta si affidano alle cure del producer Danger Mouse, ormai alle terza collaborazione con la band e promosso al ruolo di George Martin della situazione. Quello che conta, ed è qui che il gioco di Auerbach e Carney riesce davvero bene, è che l’essenza ruvida dei pezzi resti comunque ben marcata. Per il resto, in alcuni momenti si percepisce un curioso livello di contaminazione stilistica, ma nulla che porti fuori strada rispetto al sentiero che i due artisti americani hanno scelto di imboccare: accanto al boogie di Gold on the ceiling e al fragoroso rock di Lonely boy e Money maker, infatti, serpeggiano esperimenti come Sister (dall’appeal danzereccio) e Hell of season (impasto chitarristico raggae-rock degno dei Clash e suadente melodia pop). Il rock’n’roll bluseggiante è sempre dietro l’angolo, acido in Run right back e scarno in Mind reaser, a testimoniare comunque un’inflessibile fedeltà nei riguardi del genere.

Le undici canzoni di El camino divertono e colpiscono l’attenzione quanto basta per meritarsi un sincero apprezzamento. Per il resto, chiedere uno sforzo maggiore a Auerbach e Carney sarebbe inutile: geni non lo sono mai stati, ma anche questa volta hanno mantenuto le promesse, garantendo una buona mezz’ora di sano divertimento. Una testimonianza efficace di come, dopo oltre mezzo secolo di vita, una certa attitudine rock’n’roll riesca ancora a ritagliarsi dei piacevoli momenti da ricordare.

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