Cristina Comencini – Quando la notte

Marina è una giovane mamma in vacanza con il proprio figlio in una sperduta località piemontese di montagna. L’appartamento che ha preso in affitto si trova all’interno dell’abitazione di Manfred, scontrosa guida alpina. Una notte, il figlio della donna, Marco, di neanche due anni, ha un incidente: cade da una sedia battendo la testa. Manfred soccorre il piccolo, ma comincia a nutrire il sospetto che la sua affittuaria abbia volutamente ferito il bambino. Da quel momento, tra i due s’instaura un rapporto complesso, fatto di sospetti, gelosie, momenti d’inaspettata tenerezza, una storia d’amore che solo quindici anni più tardi troverà un fugace appagamento prima che la vita di tutti i giorni risucchi i due protagonisti.

In concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Quando la notte ha ricevuto accoglienze contrastanti. I detrattori, in particolare, hanno parlato di un film freddo, scarsamente coinvolgente, di attori fuori ruolo, di un plot banale e così via. Noi, dal canto nostro, ci schieriamo invece dalla parte dei pochi estimatori. L’undicesima pellicola della Comencini, tratta dal suo omonimo romanzo, ha al nostro avviso innumerevoli punti di forza. Tanto per cominciare, si configura come una riflessione, non banale, sul tema della maternità, sulla difficoltà del mestiere di genitore – nello specifico di madre. Marina è una donna fragile, insicura, schiacciata dal peso delle aspettative che gravano sul suo ruolo: ama Marco, ma al tempo stesso avverte, per sua stessa ammissione, il desiderio sporadico di liberarsene per allontanare da sé il fardello di responsabilità che crescere un figlio inevitabilmente comporta. L’ambivalenza di tale sentimento è tale per cui scopriremo una sua ben precisa responsabilità nell’incidente occorso al piccolo. Manfred, dal canto suo, è un uomo chiuso, freddo, scostante. Separato dalla moglie, Luna, la quale gli ha dato due figli, è stato segnato a vita da un’episodio della sua infanzia, la decisione della madre di abbandonare lui, i suoi due fratelli e il padre per rifarsi una nuova vita. I sospetti che nutre nei confronti di Marina a partire dalla notte in cui Marco si ferisce sono pertanto il prodotto di un approccio paranoico legato al trauma, prima ancora che di elementi reali (l’aver trovato, quella notte, la donna paralizzata in terra e seminascosta, nonostante il piccolo giacesse poco distante con un vistoso taglio in testa, e un disegno infantile, rinvenuto il giorno dopo, contornato dalle scritte «amore» e «odio» ripetute più volte).

La Comencini (coadiuvata da Doriana Leondeff) imbastisce una sceneggiatura in cui il racconto gioca su dialoghi ridotti all’osso, silenzi, sguardi. La macchina da presa, la fotografia, il commento musicale: tutto gioca a favore della storia, senza inutili virtuosismi. L’unica pecca è nella seconda parte, incentrata sul rendez-vous tra i due protagonisti a distanza di tre lustri, una scelta narrativa un po’ prevedibile, che toglie al film un pizzico di quel rigore che l’aveva contraddistinto sino ad allora.

A rendere comunque convincente il film della Comencini ci pensano poi anche gli interpreti, Filippo Timi nei panni di Manfred e Claudia Pandolfi in quelli di Marina, con il primo, in particolare, capace di trasmettere quel misto di misantropia, rabbia e muta disperazione che contraddistingue il suo personaggio.

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