Luca Guadagnino – Io sono l’amore

La trama di Io sono l’amore è molto semplice e lineare: il film racconta le vicende pubbliche e private della ricca famiglia milanese dei Recchi, composta da Tancredi, Emma e i tre figli, Elisabetta, Edoardo e Gianluca. La pellicola si articola in quattro momenti: tutto comincia a Milano, in un giorno d’inverno; prosegue nella soleggiata San Remo, per approdare, in seguito, a Londra e concludersi con il ritorno di tutti i personaggi nella città lombarda. La storia si sviluppa principalmente intorno alla figura di Emma, affascinante donna di origine russa, insoddisfatta del rapporto con il marito e stanca delle convenzioni sociali, che inizia una relazione con il cuoco Antonio, amico di Edoardo.

Da un punto di vista formale, il film è un prodotto di buona qualità. In particolare, è apprezzabile il parallelismo tra ambienti e personaggi: di Milano vengono filmati gli edifici più imponenti e grigi, simbolo di quell’industrializzazione di cui i Recchi sono dei beneficiari. La routine famigliare riflette in tutto e per tutto lo stile della Milano da bere, votato all’apparenza ma, il più delle volte, privo di contenuto. Al contrario, gli assolati spazi sanremesi sono caratterizzati da un vivere rustico e semplice, tipico di Antonio, nel quale Emma trova equilibrio e appagamento. Infine, Londra rappresenta il progresso e quel processo di globalizzazione nel quale i Recchi vengono, malgrado le resistenze di Edoardo, coinvolti.

Purtroppo, il film registra non pochi punti deboli: intanto, non ci sono personaggi dotati di autentico spessore psicologico. Tilda Swinton non convince, a partire dalla scelta di non doppiarla: a parte l’italiano stentato, la banalità delle sue battute è tale che tanto valeva farla tacere del tutto. Migliore sorte non è toccata agli altri interpreti, tutti decisamente sotto tono: da Alba Rohrwacher a Flavio Parenti, fino a Edoardo Gabbriellini – come faccia questo ragazzo un po’ acerbo a far perdere la testa a Emma Recchi, e a farle rinnegare il suo passato famigliare, è un mistero. Inoltre, i tempi filmici sono alle volte troppo lunghi: si procede con lentezza fino alle ultime scene, mentre negli ultimi cinque minuti di pellicola si assiste a uno spettacolo dal ritmo isterico, a tratti fastidioso. Se la scelta fosse stata dettata dall’esigenza di presentare una conclusione particolarmente profonda, d’impatto o imprevedibile, allora si poteva anche accettare la cosa: al contrario, invece, il tutto si conclude nel nulla più assoluto.

Cosa rimane? In realtà, poco. Se proprio bisognava subire un lavoro brutto che portasse la firma di Guadagnino, il precedente Melissa P. era più che sufficiente.

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