La Crime Writers’ Association ha ritenuto I buoni vicini meritevole del premio “New blood dagger” anche per la sua capacità di evocare brillantemente l’America degli anni Sessanta, con i suoi pregiudizi e la sua corruzione, che sembrano però tutt’altro che lontani al lettore contemporaneo, costretto ad interrogarsi sulla reale natura della propria indole e di quella degli individui a lui vicini.
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La trama
New York, 13 marzo 1964. Intorno alle 4.00 del mattino, Kitty Genovese, di ritorno dal lavoro, viene brutalmente uccisa nel cortile del suo palazzo, sotto gli occhi indifferenti dei suoi vicini. Nel marzo del 2011 Fanucci pubblica in Italia I buoni vicini, libro di Ryan David Jahn, ispirato alla tragica vicenda.
Nel romanzo, al resoconto dell’aggressione si intreccia il racconto delle reazioni dei vicini della donna, in un continuo cambio di prospettiva che crea un drammatico contrasto tra l’impeto e la frenesia della violenza e la quasi indifferente immobilità dei personaggi. Ognuno di loro è occupato e preoccupato dagli accadimenti del proprio microcosmo, dallo svolgersi della propria vita. È un grido di aiuto a spostare la loro attenzione dall’interno delle diverse abitazioni all’esterno del cortile. Attraverso le finestre si guardano a vicenda e guardano il dramma che si sta consumando sotto i loro occhi, quasi fossero gli spettatori della scena di un film.
I buoni vicini – La recensione
Jahn usa la penna come una macchina da presa, costruendo una serie di veloci inquadrature che contribuiscono a restituire la simultaneità dei fatti raccontati. Egli predilige uno stile in “presa diretta”, funzionale, oltre che alla resa oggettiva degli eventi, anche alla creazione di un ritmo trascinante sin dalle prime pagine; a risentire di questa scelta è però lo spessore psicologico del romanzo, anche se è da riconoscere allo scrittore la capacità di fornire in pochi flash una veloce ma essenziale caratterizzazione dei personaggi, il cui mancato approfondimento successivo potrebbe in parte rispecchiare uno degli aspetti centrali del libro, ovvero il disinteresse degli individui a conoscere il prossimo.
I diversi personaggi sono come le tessere di un mosaico, costretti a vivere gli uni accanto agli altri, eppure costantemente distanziati da interstizi colmi di silenzio e solitudine. L’aggressione crea un momento di compartecipazione forzata, che mette però in luce non l’umana solidarietà bensì quel meccanismo psicologico che prende il nome di “effetto spettatore” o “sindrome Genovese”.
Secondo alcuni studi, successivi proprio a tale episodio di violenza, venne infatti dimostrato che di fronte ad un’emergenza gli individui tendono a non aiutare se si trovano in presenza di altre persone, ‘distribuendo’ sugli altri la responsabilità dell’azione. «Forse dovremmo chiamare la polizia», dirà uno dei personaggi, cui verrà prontamente risposto: «Sono certa che qualcuno l’ha già chiamata. Non dovremmo intasare le linee».