Okkervil River – I Am Very Far

“I Am Very Far”, ovvero gli Okkervil River che non ti aspetteresti. O forse no. Forse, a guardar bene, si tratta dell’evoluzione naturale di un sound che con “The Stage Names” (2007) e “The Stand Ins” (2008) aveva già acquistato maggior corposità e “durezza” rock rispetto a quella piccola gemma di alt-folk intimista che era “Down the River of Golden Dreams” (2003). Will Sheff ha spinto insomma sul pedale dell’acceleratore, portando il motore al massimo dei giri, facendolo rombare a tutta forza, presumibilmente eccitato dall’idea di sperimentare tanta potenza. Il punto, però, è che l’occhialuto songwriter non ha tra le mani una Ferrari, ma un’utilitaria a cui a truccato il motore e riverniciato la carrozzeria. E fiancate metallizzate e qualche cavallo in più non fanno un bolide. Detto altrimenti, le undici tracce di questo sesto lavoro del texano non passerebbero l’antidoping: sono pop-folk gonfiati pesantemente, sino al parossismo, ballate deturpate in nome di un’enfasi che dovrebbe tradurre un senso di urgenza espressiva ed invece è vuota grandeur.

Registrato con una formazione composta da due batterie, due bassi, due pianoforti e sette chitarre, “I Am Very Far” è effettivamente “molto lontano” dagli standard della band. L’impersonalità è il suo problema principale. Perché sebbene, per certi versi, siano evidenti i contatti con le due precedenti release, è anche vero che, per altri, le dosi di Arcade Fire e Bright Eyes qui sono state rimpolpate pesantemente, con l’aggiunta di un pizzico degli struggimenti del peggior Patrick Wolf. Il passo marziale di The Valley è incorniciato da orchestrazioni ampie e tradisce subito il canovaccio lungo il quale si muoverà tutto il full-lenght. La sinuosa e languida Pirateness gioca su sonorità più elettroniche del solito e cita Win Butler e soci con l’uso del trucco del “giornale strappato”, adoperato dai canadesi per Neon Bible. Rider è un’eroica cavalcata che fa leva su battito nervoso, un piano martellante ed impennate d’archi, fino a precipitare in un finale cacofonico. Le intenzioni ed i mezzi ci sono, ma il risultato non decolla mai. White Shadow Waltz e We Need a Myth (tesa e nevrotica la prima, straziante e romantica la seconda) ci provano ad alzare il tiro, ma falliscono il bersaglio, a causa di una prevedibilità armonico-melodica che nessun pomposo barocchismo può redimere. Ci si muove per stereotipi, insomma. Tant’è che persino il delicato valzer di Mermaid si guasta, intestardendosi ottusamente nel solito crescendo stantio. Meglio, a questo punto, il pop lieve e corale di Your Past Life as a Blast e soprattutto la morbidezza alt-country di Lay of the Last Survivior, l’unica traccia che ricordi il passato glorioso di Sheff e soci, con l’accompagnamento strumentale soffice come una carezza ed il cantato che indulge in un registro sconsolato senza risultare fastidiosamente autoindulgente. Show Yourself ha da offrire una chiusura noise-gaze, ma è troppo poco per riscattare cinque minuti buoni di noia. Un pizzico meglio fanno Wake and Be Fine, un ¾, che mescola un tono isterico ad un’epica da film western (rimandando ad un’improbabile eppure affascinante crasi tra Arcade Fire e Micah P. Hinson) e soprattutto l’atto di contrizione guidato da piano ed archi di The Rise (melodrammatica come piace a Mr. Wolf). Ma anche qui, nulla per cui strapparsi i capelli.

Ci hanno provato, gli Okkervil River, ma il colpo gli è rimasto in canna. “I Am Very Far” è un lavoro che, a dispetto della sua sbandierata “virilità” sonora, risulta assai fiacco all’ascolto, un esibizione muscolare a tratti goffa, priva di quell’umile grazia che aveva fatto grandi le precedenti prove della band di Austin, anche quando un maggior brio aveva preso piede (gli album gemelli “The Stage Names” e “The Stand Ins”). Urge, insomma, un bagno d’umiltà (sonora) se si vuole che le prove successive non ricadano nella trappola del “già sentito”, annegando nel tedio.

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