Comet Gain – Howl of the Lonely Crowd

Probabilmente a molti di voi il loro nome non dirà nulla, eppure i Comet Gain sono stati tra i protagonisti del brit-pop anni ’90. Dopo un primo tentativo di proporsi come trio (al frontman David Feck s’affiancavano il bassista George Wright e il batterista Phil Sutton), la formazione, tra sostituzioni e nuovi innesti, giunse al formato del quintetto: accanto al bandleader (impegnato alla voce, alla sei corde e alle tastiere) e a Sutton, a completare la line-up figuravano la vocalist Sarah Bleach, il chitarrista Sam Pluck e il bassista/tastierista Jax Coombes. Con questa formazione, nel 1995 il gruppo giunse al debutto con “Casino Classics”, lavoro all’insegna di un twee-pop che non aveva paura di misurarsi con la scena mod e garage-punk.

Sedici anni e cinque dischi dopo, i Comet Gain ritornano con un nuovo album, “Howl of the Lonely Crowd”. Del nucleo originario è rimasto il solo Feck; tuttavia, l’opera reca il marchio inconfondibile del gruppo. Anzi, ad ascoltare le tredici tracce che la compongono, il tempo, per i nostri, sembra essersi fermato alla metà degli anni ’90. Il che, tuttavia, non è esattamente un bene. Perché per quanto graziosi e ben confezionati, i pezzi non riescono mai ad incidere profondamente l’epidermide dell’ascoltatore, configurandosi, piuttosto, come un nostalgico e un po’ tenero esercizio passatista che non solo non aggiunge nulla all’odierna scena musicale (a onor del vero, nessuno s’aspettava un simile risultato) ma neppure al repertorio del sestetto.

Nenie sbarazzine eppure a tratti malinconiche, tastiere orchestrali, ritmiche secche e chitarre ruvide sono gli ingredienti principali del full-lenght, impreziosito da una produzione lo-fi che riesce a mascherare con sagacia i vuoti d’ispirazione. E così si oscilla dalle vivaci Clang of the Concrete Swans,The Weekend Dream e An Arcade From The Warm Rain That Falls (che ci proietta negli anni ’80 “gentili” di Orange Juice & co.) alle più meditative Some of Us Won’t Be Saved (ballad acustica d’ascendenza folk) e soprattutto In a Lonely Place, dialogo a due voci sospinto da un delicato arpeggio. Nel mezzo, il garage diWorking City Explosive!, il punk di Yoona Baines (del resto, il titolo omaggia Una Baines, tastierista dei Fall) e Herbert Hunkle pt. 2 (vicina a certe cose diJonathan Richman) e la lo psych-noise di Ballad of Frankie Machine.

Nonostante lo spettro stilistico sia rimasto piuttosto vario, quello che qui manca è il guizzo in grado di farti sobbalzare dalla sedia, la melodia che ti conquista, regalandoti la sensazione di non poterne fare a meno. Feck ed i suoi compagni d’avventura (Rachel Evans alla voce e alle percussioni, Ben Philipson e Jon Slade alle chitarre, Anne Laure Guiot Guillain alle tastiere, Kay Ishikawa al basso e M. J. Taylor alla batteria), malgrado la regia accorta di Alasdair McLean dei Clientele), Edwyn Collins, Ryan Jarman dei Cribs e Brian O’Shaughnessy (già dietro la consolle per My Bloody Valentine, Primal Scream), hanno confezionato un lavoro dignitoso ma, a tratti, leggero ai limiti della fragilità, dell’inconsistenza. Piacerà ai fan della prima ora, ma tutti gli altri, presumibilmente, finiranno col prediligere i loro ispiratori o, al contrario, le band della nuova leva che ripropongono un sound affine (The Pains of Being Pure at Heart su tutti) ma con una grinta ed una personalità che, stavolta, ai Comet Gain è mancata.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie