Non ce l’ha proprio fatta, Wes Craven. Non ha resistito alla tentazione di rimettere le mani sulla sua creatura, no. Del resto, era ampiamente prevedibile: l’assassino – recita la regola d’oro di ogni poliziesco – torna sempre sul luogo del delitto. E così il cineasta americano, richiamato a sé il fedele Kevin Williamson, sceneggiatore dei primi due episodi della saga che ha per protagonista l’ormai mitico “Ghostface”, a distanza di undici anni da Scream 3 firma un quarto capitolo per certi versi sorprendente. Il rischio, infatti, era quello di trovarsi difronte a una banalissima continuazione delle (dis)avventure del serial killer dalla faccia di gomma e della bella Sidney, magari modellata sul torture porn horror à la Saw, che oggi va tanto di moda. Niente paura: Craven è troppo intelligente per cadere nella trappola del sequel fine a se stesso e troppo fedele alla propria idea di cinema per cedere alle lusinghe delle mode. Ed allora cosa s’è inventato? Un remake.
Ma, attenzione: non un semplice remake, bensì un «remake che va oltre il remake», per dirla con gli stessi protagonisti. Ovvero, un meta-remake. Il misterioso assassino, infatti, approfittando del ritorno a Woodsboro di Sidney (Neve Campbell) per un giro promozionale del suo best-seller, ricomincia ad uccidere, seguendo però il “copione” dei primi omicidi – ovvero quelli mostrati in Scream e, nella diegesi, in Stab, la pellicola tratta dal romanzo-inchiesta della giornalista Gale Weathers (Courteney Cox) sui terribili accadimenti del 1996. Lo spettatore si ritrova allora invischiato in una fitta tela di rimandi interni, citazioni, giochi di specchi metanarrativi e metatestuali, secondo il tipico spirito della serie. Craven, insomma, propina ai suoi fedeli seguaci sempre gli stessi ingredienti di base, variando la ricetta quel tanto che basta per evitare di parlarsi addosso e sfornare l’ennesimo, intelligentissimo e crudelmente ironicodivertissement d’autore. “Postmoderno” è ovviamente l’aggettivo giusto: il regista americano rinnova ancora una volta lo slasher anni ’80 all’interno di un meccanismo nel quale a farla da padrona è la dialettica tra arte e vita. Lo scontro tra i due poli è destinato a non risolversi, giacché l’una imita l’altra e viceversa, in un gioco potenzialmente infinito, che ha mille varianti, mille finali alternativi.
Rispetto al passato, emerge una vena maggiormente polemica – “politica”, potremmo dire. L’ossessione della mediatizzazione del contatto col mondo percorre tutto il film. Cellulari, Facebook, microcamere, web: l’universo in cui si muovono gli adolescenti di Scream 4 è tutto uno squillo o una vibrazione di telefonino, una notifica, un obiettivo sempre aperto, un blog. Ovvio che, ad un tratto, non distinguano più la realtà dalla fiction, che – come il nuovo “Ghostface” – siano ossessionati dal desiderio di apparire. Ecco: l’assassino mascherato di questo ultimo capitolo della saga di Craven è, in fondo, un prodotto dei nostri tempi. Epitomizza una società nella quale l’immagine prevale sulla sostanza e che, nell’ambito del cinema “di paura”, ha come massima espressione il survival horror (Saw, Hostel), ovvero prodotti in cui non contano né storia, né struttura narrativa, né tecnica registica, ma solo l’effettismo sadico ed il numero di cadaveri ammassati. Il “Ghostface” di Scream 4 è, per l’appunto, lo spettro di una società malata, che ha perso innocenza, candore, purezza – anche cinematograficamente. Dove sono finiti – sembra chiedersi il regista – i vari Leatherface, Freddy Kruger, Jason? E dove le loro vittime, quegli adolescenti un po’ birichini ma in fondo simpatici, perché l’aria da bulli o da donne navigate che ostentavano era solo una facciata?
Il confronto finale tra Sidney e il nuovo killer assume dunque le sembianze di scontro tra due modelli di cinema horror che, a loro volta, simboleggiano due epoche diverse. Vince chi deve vincere, ovviamente – Craven non è così pessimista. Però la sensazione è che la disfatta non sia poi un pericolo tanto lontano…