Brett Simmons – Husk

L’attacco di Husk non è affatto male: quattro amici, in viaggio lungo una desolata highway, sono “aggrediti” da un mucchio di corvi che si spiaccicano sul parabrezza del loro SUV, causandone l’incidente. L’auto finisce sul ciglio di un fitto campo di mais. Al loro risveglio, i nostri scoprono che uno di loro, Johnny, non c’è più. Decidono di andare a cercarlo addentrandosi nella piantagione. Pessima idea: da quel momento in poi, un’oscura presenza che si annida nel cornfield comincerà a decimarli.

Ennesimo ritratto degli orrori che si annidano dietro la facciata di un’America rurale, contadina, la pellicola diBrett Simmons è ascrivibile al filone dell’horror di serie B, al massimo divertente ma mai incisiva. I difetti sono i soliti. Tanto per cominciare, una galleria di personaggi sbiaditi, privi di spessore, stereotipi viventi (il nerd, il codardo, l’atleta tutto muscoli e niente cervello, la bella e indifesa) buoni, insomma, come carne da macello per il temibile “Spaventapasseri” e non certo come perni intorno a cui far ruotare una storia che sia solida, convincente. Per non parlare, poi, del fatto che, per spiegare la genesi della mostruosa entità che folleggia spietata nella coltivazione, il regista ricorre al trucco più prevedibile in assoluto, quello delle visioni, che ad un tratto colgono, inopinatamente e senza alcuna giustificazione drammaturgica, uno dei protagonisti (Scott), con l’unico risultato di deprimere la tensione e la suspense che pure il film, in qualche passaggio, riesce ad evocare.

Jeepers Creepers, La casa, Il mago di Oz e Non aprite quella porta sono i riferimenti principali di Husk, con l’aggiunta di qualche citazione di Hichcock (la presenza dei volatili, misteriosi ed inquietanti, fa pensare ad un omaggio a Gli uccelli) e dell’episodio biblico di Caino e Abele (a ben vedere, il motore dell’intera vicenda). Ma Simmons, ben lungi dall’essere un auteur e un postmodernista, si guarda bene dall’addentrarsi nelle profondità della materia (meta)filmica che maneggia, limitandosi a mettere in scena un incubo concentrazionario a base di possessioni demoniache e paranoia che, nonostante qualche scena azzeccata (il rituale di cucitura della maschera da spaventapasseri, che sancisce la conquista del corpo da parte del demone, e qualche incursione nel campo di mais) non ha nulla di originale. Lecito domandarsi cosa ne avrebbero fatto un Sam Raimi o, per contro, un George Romero (ma anche un Tobe Hooper) di un soggetto del genere: probabilmente, ne avrebbero ricavato una pastiche parodistico o una riflessione sull’America della “guerra al Terrore” (in fondo, il campo di granturco non è affatto dissimile ad una giungla e il misterioso spirito maligno ha sotto il suo controllo un vero e proprio esercito di non-morti…). Probabilmente anche in questi casi non avremmo avuto un capolavoro, ma neppure ci saremmo dovuti accontentare di tanto piattume…

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