Alex Turner – Submarine

Il tiro mancino Alex Turner ce l’aveva giocato già una volta, quando, nel 2008, assieme Miles Kane (The Rascals), aveva dato vita al progetto The Last Shadow Puppets e pubblicato “The Age of Understatement”, un album di pop orchestrale dal sapore smaccatamente retrò, suscitando le sorprese di coloro i quali associavano immancabilmente il nostro a quel post-(brit)punk nervoso alla base dei primi due lavori della sua creatura, gli Arctic Monkeys, “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007). Il debut, in particolare, aveva colpito per la freschezza e l’energia dell’insieme, un brillante restyling del sound degli Oasis (e dunque di tutta una tradizione che spazia dai Beatles agli Who, passando per Kinks e Rolling Stones) alla luce della nu new-wave dei Franz Ferdinand. Messa così, suona un po’ semplicistica, ma la verità è che quella manciata di canzoni evidenziava un talento brillante, capace di fagocitare oltre quarant’anni di stilemi pop e rock albionici per risputarli ammantati di un’assai accattivante estetica in cui si fondevano umori di fine anni ’70 e sano spirito indie (post)moderno. Dicevamo, dunque, del lavoro in coppia con Kane e della sorpresa che a suo tempo suscitò. Da questo punto di vista, “Submarine” fa per certi versi un ulteriore passo in avanti, regalandoci sei composizioni all’insegna di un folk gentile, malinconico, arrangiate prevalentemente per chitarra acustica, archi e qualche tocco di piano.

Siamo lontani, dunque, dal brio elettrico delle “Scimmie” (che, a proposito, a breve torneranno con un nuovo lavoro) o dall’enfasi quasi barocca delle “Marionette”. Le sei tracce qui raccolte, composte per la colonna sonora dell’omonimo film di Richard Ayoade, sembrano uscite più dalla penna di un Richard Hawley o del Peter Doherty di “Grace/Wastelands”(Hiding Tonight, Glass in the Park) che non da qualche emulo di Clash, Jam o Talking Heads. Il che, inevitabilmente, rimanda ancora più indietro, ai “soliti” Davies e Lennon, con il fantasma di quest’ultimo che aleggia, in particolare, sulla melodia di Stuck on the Puzzle. Dunque, a ben vedere, non una frattura netta rispetto alla passata produzione: semplicemente, un approccio diverso, più intimo, minimale, che della glorioso decennio ’60 – ‘70 britannico recupera i momenti più cantautorali, lasciando per un attimo in disparte i passaggi più energici. E così, tra arpeggi malinconici (It’s Hard to Get Around) ed orchestrazioni ariose (Piledriver Walz) va in scena un divertissement di alta classe, che testimonia ulteriormente del abilità di Turner, autore dotato di una sensibilità multiforme, che gli consente di accostarsi al passato evitando la trappola del nostalgismo.

In attesa di “Suck It and See”, la quarta fatica di studio degli Arctic, godiamoci allora questa piccola delizia che è “Submarine”, lavoro certamente non innovativo, ma estremamente gustoso.

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