Clint Eastwood – Hereafter

Da quando Clint Eastwood ha cominciato a essere riconosciuto come un autore a tutti gli effetti, ovverosia un realizzatore di film dotato di una propria poetica e coerente rispetto a una visione dell’esistente che è andata sempre di più ampliandosi, ogni volta che esce una sua opera la critica fa a gara a rintracciarvi una linearità che permetta di considerare l’una quasi il prosieguo dell’altra. Tuttavia, ciò di cui egli ha dato soprattutto prova nel tempo è stata una capacità di rappresentare punti di vista assolutamente spiazzanti e diversificati (siamo convinti, ad esempio, che I ponti di Madison County sia uno degli sguardi più femminili mai portati sullo schermo, così come Un mondo perfetto la concretissima rappresentazione di un punto di vista doppiamente infantile – quello del bambino protagonista certo, ma pure del suo rapitore non molto “maturo” – che ha pochi eguali), ma anche di passare – nella tradizione del cinema americano più classico – attraverso più generi e più temi che, all’apparenza, potrebbero sembrare contraddittori.

Così, è successo che qualcuno non abbia accolto favorevolmente Invictus, il film dedicato due anni fa alla figura di Nelson Mandela, anche a causa dell’ottimismo e della vitalità che lo contraddistinguono, lontani dai toni cupi delle opere più “autoriali” del regista. Lo sguardo trascendentale del recentissimo Hereafter, che, pur mantenendosi lontano da qualsiasi religiosità, ipotizza la possibilità di un “qualcosa” dopo la morte, può parimenti risultare fuorviante rispetto a film testamentari quali Million Dollar Baby e Gran Torino nei quali, specialmente per quel che riguarda il secondo, il rapporto dei protagonisti con la propria fine sembrava escludere aprioristicamente tale evenienza.

Non vogliamo incappare anche noi in questa volontà dare un ordine forzato a una filmografia tanto variegata e stratificata, ma una rilettura delle opere eastwoodiane alla ricerca di uno sguardo più propriamente “spirituale” potrà portare a importanti sorprese che possono spiegare per quale motivo Clint Eastwood sia uno dei pochissimi registi in grado di arrivare a toccare corde molto profonde in qualsiasi spettatore. Seguendo tale linea interpretativa, si consideri addirittura quanto il “fatale” (e dickensiano!) legame che unisce i tre protagonisti di Hereafter (un bambino che vive a Londra, una giornalista di Parigi e un medium di San Francisco), abbia in comune con l’altrettanto fortunato incontro tra il giornalista e il detenuto di Fino a prova contraria.

In Hereafter, però, dobbiamo ammettere che, seguendo la sceneggiatura di Peter Morgan, Eastwood giunge a commettere un evidente errore: sacrificare un punto di vista di valore. Se, infatti, l’autore è abilissimo nel tratteggiare le motivazioni e il carattere del bambino (l’esordiente Frankie McLaren) e del medium (Matt Damon) e nel costruire il legame che finirà per unirli, limita il personaggio femminile della giornalista (Cécile De France) ha un ruolo meramente funzionale (è attorno a lei che quelli si troveranno). Scavando anche in questo personaggio, Eastwood ci avrebbe regalato qualche lacrima in più.

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