Chapel Club – Palace

Incensati dalla stampa inglese (“NME” su tutti) e tendenzialmente etichettati come shoegazer, i Chapel Club hanno in realtà poco a che vedere con le tempeste elettriche dei My Bloody Valentine. La band londinese, capitanata dal vocalist Lewis Bowman e dal chitarrista Michael Hibbert, sembra infatti essere più legata al filone new-wave, quello che dai più classici Echo & The Bunnymen e Joy Division si allunga sino alle loro propaggini contemporeanee (Editors, White Lies e Interpol).

Il sound del quintetto (la line-up è completata dall’altro chitarrista Alex Parry, dal bassista Liam Arklie e dal batterista Rich Mitchell) è granitico, roccioso, una combinazione di umori sintetici ed epica chitarristica. L’appeal è indubitabile, la consistenza un po’ meno. A latitare, in questi undici pezzi, è soprattutto la fantasia melodica. È la solita vecchia storia, insomma: la confezione è impeccabile (merito anche del produttore, Paul Epworth, già al lavoro con Bloc Party e Florence and the Machine) ma, scartato il pacco, ci si ritrova con in mano un pugno di mosche. Surfacing, ad esempio, sfodera un motivo solenne, ma naviga in superficie, tra Joy Division e Morrissey (il crooning lamentoso di Bowman). Five trees parte benissimo, spandendo colate laviche di elettricità: peccato si rimangi tutto, lanciandosi nell’ennesima nenia à la Ian McCulloch, incalzata sempre dalla veemenza della coppia (ben assortita, a dire il vero) Hibbert/Parry. Stesso copione per After the flood e White night position, che vanta un pathos a dire il vero convincente. Ancora meglio fanno la struggente ballad The shore e Fine light, la più smithsiana del lotto (malgrado gli innegabili influssi shoegaze).

La galoppante All the Eeastern girls sfodera un ritornello che non dispiacerebbe agli Strokes, mentre Paper thin, con la sua cullante partitura retrò squassata dalle solite deflagrazioni à la Kevin Smith, fa pensare invece ai Glasvegas.

Qualche pregevole intuizione non può però far dimenticare il calligrafismo di cui soffre Palace, la sua mancanza di spunti realmente memorabili. Disco dignitoso, ma nient’altro, con buona pace di NME.

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