Gus Van Sant – Da morire

Da morire appartiene a quella categoria di piccoli gioielli cinematografici che troppo spesso – purtroppo – passano quasi del tutto sotto silenzio. Questo anche se, nel 1995, il nome del suo regista, Gus Van Sant, già circolava parecchio nell’ambiente indie, soprattutto grazie agli interessanti esordi con Mala noche, Drugstore cowboy e Belli e dannati.

Dopo un paio d’anni da Cowgirl. Il nuovo sesso (dedicato all’amico River Phoenix), Van Sant decise di raccontare la storia di Suzanne Stone, decisa a tutto pur di sfondare in televisione. Da ammiccante meteorina, Suzanne progetta una rapida scalata verso il successo: ambizione che diventerà ben presto un’ossessione, tanto che la donna inizia a meditare uno stratagemma per liberarsi dell’ingombrante marito, giovane italo-americano, dotato di buon cuore ma anche piuttosto rozzo. Per questo, Suzanne recluta un trio di adolescenti disadattati, seducendone uno (Joaquin Phoenix) e convincendolo a uccidere l’irritante consorte.

TO DIE FOR, Nicole Kidman, 1995

Tratto da un romanzo di Joyce Maynard, in Da morire Van Sant non rinuncia ad offrire al pubblico il suo tocco squisitamente indipendente, pur anticipando, per certi versi, la sua successiva entrata nel circuito mainstream hollywoodiano. È quasi logico affermare che la pellicola è un’amara riflessione sugli aspetti negativi del potere di persuasione del mezzo televisivo, della sua capacità di omologare le menti e di ridurre l’essere umano a schiavo dell’apparire.

Il punto di forza di questa commedia noir è l’unione di una sceneggiatura solida con questa visione dell’umanità ridotta a mero oggetto da esposizione, da guardare ma, possibilmente, da non ascoltare, poiché non ha niente di davvero interessante da dire. La stessa Suzanne sarà vittima delle proprie illusioni, incapace di trovare una sua dimensione al di fuori dello schermo. Ed è lei, Suzanne, il vero valore aggiunto del lungometraggio: Nicole Kidman – allora avviata verso il successo planetario – ci regala un personaggio algido e distante, rimanendo per sempre (e nel finale, letteralmente) una «bambola di ghiaccio», dotata di vere emozioni solo se certa di poter entrare, tramite la televisione, nelle case di tutti gli americani (perché è questo il punto: la vita di provincia a lei non piace e non le è mai piaciuta).

I rischi dello strumento televisivo sono gli stessi dipinti vent’anni prima da Sidney Lumet in Quinto potere: se non si è in grado di filtrare le comunicazioni lanciate, contestualizzandole all’interno di un ambito di normalità, di vita vissuta, il pericolo non è più solo quello di omologazione delle coscienze, ma anche di distorsione della realtà, di incapacità di distinguere ciò che è finzione da ciò che è vero. È questo quello che accade a Suzanne, ormai così inconsciamente confusa e disorientata da auto-condannarsi al tragico – e possiamo dire quasi ovvio – epilogo delle sue chimere di gloria.

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