La grande famiglia Klingenfeldt si riunisce per festeggiare il compleanno del patriarca, Helge. I membri del convito appartengono a una dinastia di ricchi imprenditori dell’alta borghesia danese, ignari di ciò che li aspetta durante quella “festa in famiglia”. Infatti, uno dei figli di Helge, Christian, durante il banchetto si alza e, con un accorato discorso camuffato da brindisi, accusa il padre di pedofilia e di essere il principale responsabile del suicidio della sorella.
Era il marzo 1995 quando a Copenaghen venne firmato il manifesto del Dogma 95, fortemente voluto da Lars von Trier e Thomas Vinterberg. Una vera e propria lista di regole nero su bianco, con lo scopo di portare il cinema a un’ideale purezza, scevro da effetti speciali, luci, scenografie e colonne sonore. Il decalogo stesso del Dogma è stato violato in più di un’occasione e così ha fatto anche Vinterberg nel suo Festen (tuttavia, l’oggetto della violazione venne dichiarato in apertura), passato alla storia come Dogma #1 (in realtà, uscì lo stesso anno di Idioti di von Trier).
Festen è uno spaccato lucido e impietoso della società borghese di Danimarca, la cui struttura viene completamente distrutta sin dalle fondamenta, rappresentate proprio dal capofamiglia, oggetto di accuse infamanti. Ne esce il ritratto di una classe corrotta, marcia, sorda a tutto ciò che può sconvolgere l’ordine prestabilito, che trova nel suo stesso interno (Christian) l’elemento di rottura e di denuncia.
Festen non è stato né il primo né sarà l’ultimo film inerente a tematiche di questo genere: tuttavia, è impossibile non notare le tecniche con cui è stato realizzato – con un’efficace telecamera a spalla e nessuna luce artificiale – e, soprattutto, l’abilità del regista nel mettere in scena un vero e proprio teatrino, fatto di attori che recitano una parte, indossano maschere, si auto-compiacciono della loro posizione sociale e poi litigano, si azzuffano, si offendono.
«Che croce vivere in questa casa» esclamava Leone ne I pugni in tasca di Marco Bellocchio, lungometraggio che ritraeva una condizione molto simile a quella messa in scena da Vinterberg, con protagonista una borghesia decaduta, prigioniera di un claustrofobico disagio interiore. Nella pellicola italiana il titolo richiamava un celebre verso di Rimbaud («Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate»), che evidenziava il desiderio di emancipazione da sè e dal proprio ambiente di protagonisti inetti. Anche nell’opera del regista danese domina tale volontà, tutta riassunta nell’eclatante gesto del figlio e, in effetti, l’epilogo della vicenda cambia alcune dinamiche, mentre altre rimangono invariate: comunque, l’amaro in bocca resta e il tutto si chiude senza veri vincitori e vinti.