David Gilmour – Rattle that lock

Quando uscì Songs of innocence, gli U2 erano in piena paranoia. Nelle interviste, Bono si chiedeva se la musica della sua band fosse ancora rilevante. Se con questo termine si intende rivoluzionaria, in grado di spostare in avanti l’asticella del linguaggio del rock, allora la risposta non poteva che essere no. Tuttavia gli U2, oltre che una grande band, sono anche una formidabile macchina di marketing, e dunque rilevanti, in un certo senso, rimangono comunque. La stessa domanda che affliggeva Bono vale per David Gilmour: quanto può essere rilevante Rattle that lock, il nuovo disco dell’ex Pink Floyd?

Anche qui, se il metro di giudizio include parametri come “originalità”, “freschezza” ecc., la riposta non può che essere: pochissimo. Del resto, parliamo di uno che è in giro dalla fine degli anni ’60, e forse pretendere la rivoluzione sarebbe persino ingiusto. Ma proprio per il peso specifico che Gilmour ha nella storia del rock una sua nuova uscita non si può ignorare. E così, eccomi qui a parlare di Rattle that lock con un pizzico di emozione. È un disco di canzoni, tra pop, rock, psichedelia e persino una spruzzata di jazz, co-prodotto dall’amico Phil Manzanera (che ha lavorato anche sull’ultimo Pink Floyd, The endless river). L’overture, 5 A.M., è la sintesi perfetta della penna e del mood di Gilmour, un concentrato di arpeggi acustici maliconici e bending chitarristici “lunari”. Un acquerello strumentale tra Wish you where here e On an island, seguito dalla più grintosa title-track, con Gilmour che mette la sua inconfondibile sei corde al servizio di una melodia semplice ed incisiva, sorretta da accenti funky.

L’elemento “ambientale” ritorna in A boat lies waiting, pinkfloydiana fino al midollo, e non poteva essere altrimenti: è dedicata al grande Richard Wright, storico tastierista della band, scomparso nel 2008. Nonostante le assonanze col repertorio della band, Rattle that lock non suona ruffiano. In pezzi come Faces of stone (la più folk del lotto), Dancing in front of me e In any tongue, Gilmour cerca di arricchire la sua tavolozza con tonalità nuove. L’ispirazione non è eccezionale, ma solo nella jazzata The girl in the yellow dress Gilmour (e l’autrice dei suoi crepuscolari testi, la compagna Polly Samson) commettono un vero passo falso. E se la gradevole Today è marchiata a fuoco con il rock e l’elettronica degli anni ’80, gli strumentali Beauty, con i suoi intrecci irreali di piano, sintetizzatori, orchestra e chitarre, e And then (una reprise di 5 A.M.), lasciano intravvedere le possibilità migliori, anche se solo abbozzate.

Con Rattle that lock Gilmour non ha fatto il disco della vita, ci mancherebbe. È un album “datato”, nel senso che la sua matrice è nel pop, nella psichedelia e nell’ambient “classici”. Però ha un fascino suo, che alleggerisce persino il peso di qualche lacuna. Rilevante: in un’epoca in cui il rock non ha più significati politici e la musica è un fatto estetico, meglio la grazia discreta di Gilmour che le mossette di tanti indiefighetti.

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