Antoine Fuqua – Southpaw – L’ultima sfida

«Buongiorno ragazzi, questa mattina al corso di sceneggiatura di primo livello, cerchiamo di mettere in pratica Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler applicato al film di pugilato. Tutto quello che vi serve è un protagonista dal passato sofferto che grazie ai suoi successi nel mondo dello sport si ritrova con un mucchio di soldi, una casa enorme e una famiglia bellissima. Mettete il vostro protagonista nella condizione di scegliere se continuare a combattere oppure smettere per far felice sua moglie. Prendete un antagonista e fate in modo che il protagonista perda tutto quello che ha, la moglie, la figlia, l’allenatore, la casa e gli amici, e si ritrovi a ripartire da zero. Fategli toccare il fondo e solo a quel punto iniziate la sua redenzione. Inserite un mentore che gli illustri la via, metteteci dentro il duro lavoro e gli allenamenti e alla fine fatelo vincere contro il suo antagonista e contro tutti i suoi fantasmi. E, cosa più importante, fregatevene se qualcuno vi dice che state copiando Rocky, Toro scatenato, The fighter o qualsiasi altro film sulla box».

Come avrete capito, e scusateci se abbiamo esagerato con gli spoiler, Southpaw – L’ultima sfida, è il classico racconto di formazione dell’eroe dove la parabola successo-caduta-riscatto-trionfo non solo è pienamente rispettata ma anche e soprattutto innalzata a regola da seguire alla lettera. Niente nel film scritto da Kurt Sutter si può dire farina del suo sacco. Southpaw è infatti un film che vive di scelte facili e stereotipate che mirano ad acchiappare il grande pubblico (e forse anche qualche membro dell’Academy) e che hanno l’unica funzione di far progredire la vicenda (con i tempi giusti, questo c’è da dirlo) senza però che ci sia un reale scavo dentro i personaggi e dentro il racconto facendo perdere anche ciò che di buono fanno gli attori, Jake Gyllenhaal in testa.

Così come niente, nello stile registico di Antoine Fuqua, può definirsi originale. Tutto è infatti già visto e già sentito. Da buon mestierante, il regista americano si limita infatti a riproporre l’abusatissima estetica da videoclip con l’immancabile utilizzo delle soggettive e degli slow motion e scegliendo un montaggio frenetico e scolastico (non a caso il film era stato scritto per Eminem, che poi ha rifiutato, e vede la presenza di 50 Cent e della cantante Rita Ora)

Un film che si confronta quindi con la mitologia della boxe e ne scopiazza tutti gli archetipi che ne hanno fatto un genere a sè nella storia del cinema, senza però avere quella pregnanza di significato dei capolavori riconosciuti. Così senza accorgersene hai già acceso il tuo stereo, stai ascoltando Eye of the tiger e sei seduto sul divano a rimpiangere quando i personaggi si dicevano: «Non fa male, non fa male».

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