Ispirato a una storia vera, Vivere in fuga di Sidney Lumet racconta la vicenda di Arthur e Annie Pope, una coppia di ex militanti di sinistra, protagonisti negli anni Settanta di un attentato a un laboratorio nucleare. Sedici anni dopo il fatto, i due sono ancora latitanti, insieme ai figli Danny ed Harry. Ogni sei mesi i quattro sono costretti a cambiare nomi, città, tingersi i capelli, questo finché Danny, il maggiore dei due ragazzi, si ribella allo stile di vita del fuggiasco, spinto dal desiderio di stabilizzare la sua quotidianità e diventare un musicista, iscrivendosi alla prestigiosa Juilliard a New York.
Vincitore nell’89 del Golden Globe per la migliore sceneggiatura, Vivere in fuga è forse uno dei più toccanti e sentiti film di Lumet, da sempre con la sua cinematografia sensibile a tematiche politiche e sociali. Il film altro non è che una rilettura di ciò che animava i movimenti sessantottini, con il regista che tenta (con successo) una riflessione sullo scarto esistente tra impegno civile ed emozioni. Ma, soprattutto, Lumet riesce a confezionare un prodotto in cui il concetto stesso di libertà, che ha mosso azioni e pensiero della generazione hippie, viene capovolto, tanto che la famiglia Pope si ritrova a campare schiava delle proprie scelte passate, dentro un circolo vizioso di clandestinità che sembra non avere più fine (e, infatti, il titolo originale del lungometraggio è Running on empty, ovvero “girare a vuoto”).
Due sono i punti forti di questa pellicola: sceneggiatura e cast d’attori. La prima coniuga alla perfezione impegno ideologico e sentimenti, senza risultare mai stucchevole o retorica. A Lumet non interessa fornire diretti giudizi di natura morale, perché i suoi caratteri parlano per lui, in quanto la famiglia è quel microcosmo che, in fondo, rappresenta in piccolo l’umanità intera: i meccanismi di affetto, collaborazione, ma anche di contrasto, confronto e spesso incomprensione, sono i medesimi che un essere umano impara a riconoscere in una collettività più ampia. La famiglia è «quell’area in cui un individuo si adatta o non si adatta a vivere in una società, nella quale costruisce la sua ostilità o integrazione nel sistema sociale», e per questo, raccontando dei Pope, Lumet riesce a trasmettere un messaggio più profondo e vasto al suo pubblico.
Per quanto riguarda gli interpreti, invece, degna di lode è la performance dell’allora diciottenne River Phoenix – candidato per il suo ruolo all’Oscar come migliore attore non protagonista, premio poi assegnato a Kevin Kline per Un pesce di nome Wanda -, che con Vivere in fuga vide aprirsi la strada di una promettente carriera, stroncata, purtroppo prematuramente, da un’overdose di speedball la notte di Halloween del ’93.