Nicolas Winding Refn – Bronson

È difficile definire Bronson di Nicolas Winding Refn un semplice biopic. Certo, il film racconta la storia di Michael Gordon Peterson (conosciuto come Charles Bronson, Charles Ali Ahmed e, infine, Charles Salvador) «il più violento prigioniero britannico», sul quale sarà bene spendere due parole prima di proseguire e parlare del film. Bronson finì in carcere a metà anni Settanta e proprio in galera si costruì una pessima fama, a causa di un caratteraccio che lo spinse a provocare continue risse con le guardie e gli altri detenuti. Per questo motivo fu messo più volte in isolamento, cambiò spesso prigione e la sua originaria condanna a sette anni venne raddoppiata a quattordici. Uscito di galera, trascorse un paio di mesi da uomo libero, poi venne nuovamente arrestato.

La storia è ancora lunga (alla fine il galeotto in isolamento ci passò trent’anni): il nome Bronson, adottato negli anni Ottanta, fu un omaggio all’attore, mentre l’ultimo nickname, Charles Salvador, all’artista Dalì. Bronson è uno dei criminali più seguiti di Gran Bretagna, oggetto di numerose interviste, studi, libri, e lui stesso ne ha scritti alcuni, sulla sua esperienza in prigione e un volume sul fitness, essendo un fanatico della forma fisica. La questione del corpo è ben visibile nel film di Winding Refn, dove Bronson è interpretato da un eccellente Tom Hardy: l’attore ha personalmente incontrato Bronson e, per ricoprire al meglio il ruolo, si è rasato i capelli a zero, è ingrassato e ha aumentato la sua massa muscolare. Il risultato è stato sorprendente e raramente al cinema si è vista una performance di tale intensità (memorabile il monologo in cui Hardy interpreta davanti a una platea sia Mr. Peterson sia l’infermiera).

Winding Refn parte dai primi anni di carcere di Bronson, inserendo anche la parentesi dell’internamento presso un ospedale psichiatrico, dove l’uomo tenta di strangolare un paziente che ha ammesso il suo passato di pedofilo. Spazio anche per la carriera da pugile di Bronson, di breve durata, poiché ovviamente finisce di nuovo nei guai. Il regista danese non rinuncia al suo solito stile carico di violenza e brutalità, già esplicate nelle sue precedenti pellicole, a cui aggiunge un’abbondante dose di elementi grotteschi e surreali, che, al contrario, fanno di Bronson un film finora unico nella sua intera filmografia.

Abbiamo detto che è difficile definire la pellicola un semplice biopic, poiché una storia lineare viene trasformata in una sequenza priva di qualsiasi ordine cronologico: il personaggio è ora Bronson e subito dopo un attore teatrale dal volto dipinto, il confine tra vero e fittizio, serio e grottesco, si fa sempre più labile e, ai nostri occhi, il protagonista diventa sempre più articolato, complesso, indecifrabile.

Nessuno spazio per gli (anti)eroi precedenti: il cineasta lascia i suoi piccoli spacciatori a Copenhagen e vola in Gran Bretagna, per realizzare il suo secondo film in inglese dopo Fear X. Quando realizzò Bronson, Winding Refn era reduce dalla “Trilogia del Pusher”, iniziata a metà anni Novanta e conclusa nel 2005, con il terzo capitolo dedicato al personaggio di Milo. Gli ultimi due capitoli vennero girati dopo un periodo di profonda crisi professionale del regista, incapace di bissare il successo del primo Pusher, strepitoso cult underground di un Winding Refn di appena venticinque anni e nessuna formazione cinematografica alle spalle: dopo aver concluso in modo trionfale la sua trilogia, il regista sancì la sua fama proprio con Bronson, grazie al magistrale Hardy, che, proprio per il suo incredibile Bronson, venne in seguito notato da Christopher Nolan che lo scelse in Inception e per interpretare Bane ne Il cavaliere oscuro. Il ritorno.

 

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