Blur – The magic whip

Se oggi potrete entrare in un negozio di dischi e chiedere l’ultimo album dei Blur, The magic whip, lo dovete a Graham Coxon. Nel 2013, durante una pausa del tour di reunion, i Blur si trovarono in un piccolo studio di Hong Kong per riscoprire il piacere della jam session. I pezzi che ne nacquero non convincevano troppo Damon Albarn, e così l’embrione di The magic whip rimase nel cassetto per quasi un anno. Fu Coxon a tirare fuori i nastri e a sottoporli a Stephen Street, che aveva prodotto alcuni dei capolavori della band (Modern Life Is Rubbish, Parklife e Blur). Il resto è storia, e ce l’avete tra le mani (o in playlist).

A tredici anni di distanza da Think tank e a sedici da 13, l’ultimo disco prima dell’abbandono temporaneo di Coxon, come suonano i Blur? Come una band che ha un’identità precisa, immediatamente riconoscibile, ma anche l’intelligenza di ammettere che il tempo è passato e che fare finta di nulla sarebbe patetico. Per farla semplice: The magic whip è un mix di tutto quello che adorate della band (le melodie pigre, svogliate, i coretti, le chitarre taglienti) più qualche nuovo ingrediente, derivato soprattutto dal nuovo corso solista di Albarn.

Lonesome street, l’attacco, è un benvenuto caloroso. Il riff è 100% made in Coxon; il cantato in staccato di Albarn e le inflessioni beatles-bowiane si impongono con la solita freschezza. In questo senso, il tempo non sembra passato. Go out, con il suo ritornello virale, conferma come i Blur abbiano ritrovato il feeling e la voglia di suonare assieme. A questo punto, perché non osare di più e concedersi una bella divagazione psichedelica? Ecco Thought I was a spaceman: scarna, lenta, inquietante, con qualche spruzzata di elettronica ed aromi orientaleggianti.

Sul versante più spettrale troviamo anche Ghost ship, un funk-reggae sonnambulo che, assieme ad Ice cream man (ballad per chitarra acustica e orchestrazioni) e alla malinconica My terracotta heart, mostra come le rughe non siano necessariamente un male. Oltre a svelare una maturità intrigante, i tre brani mostrano anche il punto di equilibrio perfetto raggiunto dai Blur come band: certe intuizioni portanti, che sembrano figlie ancora della carriera solista di Albarn, si integrano alla perfezione in un tessuto sonoro che valorizza l’apporto di tutti i compagni.

Pyongyang rubacchia qualcosina ad Ashes to ashes (ma è un peccato veniale). Ad alleggerire l’atmosfera di The magic whip ci pensano il riffone di I broadcast (che davvero sembra un salto indietro di vent’anni) e il “la la la” di Ong ong L’incedere militaresco e gli aromi sci-fi di There are too many of us riassumono forse al meglio il mood del disco. The magic whip è un album che racconta l’isolamento emotivo e fisico in cui siamo precipitati negli ultimi quindici anni. L’epoca di Youtube, Facebook, Twitter, degli smartphone. L’epoca del ritorno di una band di cui sentivamo davvero la mancanza.

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