Paul Thomas Anderson – Vizio di forma

«Quando le piogge d’inverno s’abbatteranno forti

su quella mia nuova casa,

penserai a me e ti chiederai se sto bene?

Tornerà da me il tuo cuore irrequieto

in un viaggio attraverso il passato?

Sarò ancora nei tuoi occhi e nei tuoi pensieri?»

È un presente incerto e indefinito quello che canta Neil Young nella splendida Journey through the past che fa da colonna sonora all’ultimo film di Paul Thomas Anderson, Vizio di forma. Un presente fatto di domande forse senza risposta e all’interno del quale si annida un intimo senso di malinconica speranza. Il passato è infatti lontano e non tornerà più, sembrano dirci in coro il regista e il cantautore, e per la prima volta anche il futuro non ci riserva niente di buono.

Siamo alla fine degli anni ’70, in piena età dell’Acquario, periodo diviso a metà tra le belle speranze dei movimenti giovanili e la disillusione per la fine di quel sogno americano spazzato via dal Vietman, da Charles Manson e dagli intrighi politici nixoniani. Immerso in questa fitta nuvola di fumo e nebbia il regista di The Master ambienta il suo settimo lungometraggio e ci consegna un’altro lucidissimo e personalissimo spaccato della storia americana. Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon il film ruota attorno alla figura del detective privato Larry “Doc” Sportello (eccezionale come sempre Joaquin Phoenix), un tossicodipendente che si ritrova invischiato in uno psichedelico intreccio “fatto” di grotteschi personaggi e oscuri tranelli. Messo in mezzo dalla sua ex fidanzata per la quale nutre ancora un profondo sentimento, Doc dovrà fare i conti con una misteriosa associazione di dentisti nota come Golden Fang, la scomparsa di un sassofonista eroinomane, la Fratellanza Ariana, un locale di prostitute “sui generis”, avvocati, agenti dell’FBI e ricchi imprenditori.

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Difficile stare dietro a questo incredibile magma di sensazioni, volti, dialoghi mescolati tra di loro come nello stile letterario pynchoniano. Come difficile, d’altro canto, era adattare i diversi livelli narrativi della pagina scritta alla dimensione cinematografica. Ma Anderson traduce quasi alla lettera il testo di Pynchon e su questo trasforma il suo stile in modo da renderlo perfettamente conforme alla poetica dell’autore.

Cullato dalle alienanti note di Jonny Greenwood e dalla soave voce fuori (e in) campo dell’arpista Joanna Newsom, lo spettatore non può che abbandonarsi a questo fiume ininterrotto di immagini e suoni che scorrono sulla pellicola senza tagli netti di montaggio ma dissolvendosi piano piano (allo stesso modo di come fanno i personaggi-fantasmi che popolano il film) o tutt’al più sfruttando il movimento intrinseco della macchina da presa, che tenta senza riuscirci di avvicinarsi al cuore dei personaggi. Fluttuante come un sogno ad occhi aperti, allucinato come un trip, sfuggente come il tempo, il film di Anderson mette in scena il ricordo stesso di quegli anni, che testardamente il protagonista, e con lui anche il regista, crede che possano ancora regalare qualche speranza. Ma solo «se tu starai al passo con me».

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