Richard Glatzer, Wash Westmoreland – Still Alice

Qui in Bottega abbiamo già speso parole non troppo gentili sui tipici film da Oscar, quelli, per intenderci, dalla lacrima facile e dall’insopportabile buonismo di fondo. Ne sono un perfetto esempio due film che si apprestano quest’anno a spartirsi buona parte dei premi più importanti: La teoria del tutto e The imitation game. Sulla carta Still Alice, sarebbe dovuto entrare di diritto in questa lista, benchè abbia ricevuto la candidatura solo per il premio di miglior interpretazione femminile. E invece il film della coppia Richard Glatzer e Wash Westmoreland vince laddove i film sopracitati perdevano, ovvero puntando l’attenzione non su inutili scene madri o invenzioni visive e narrative fini a se stesse, ma scegliendo di concentrarsi sul vissuto interiore della protagonista, senza risparmiarsi le parti più scomode.

 

Alice è una professoressa di linguistica alla Columbia University felicemente sposata e madre di tre figli. Durante un convegno, improvvisamente, inizia a non ricordarsi più le parole del suo discorso. Proprio lei, che attorno alle parole ha costruito tutta la sua carriera. Se in un primo momento si teme al tumore, Alice scopre ben presto di essere affetta da una precoce forma di Alzheimer. Seguirà una dura lotta della donna per combattere sia il lento perdersi dei ricordi sia i diversi atteggiamenti della sua famiglia nei suoi confronti.

 

 

Quello che in realtà sembra il solito film sulla malattia (anche se l’Alzheimer non è mai stato propriamente un tema cinematografico) – e in effetti, la sceneggiatura non è esente da qualche faciloneria “già vista” – diventa grazie alla precisa e composta regia dei due cineasti, una indagine silenziosa sulla comparsa e il lento progredire di un male incurabile, vista non dal punto di vista dei familiari ma proprio da quello della persona affetta. Differentemente dai canoni hollywoodiani che impongono per pellicole di questo tipo una visione edulcorata della malattia con un eccessivo phatos drammatico, il film acquisisce, per la sua antispettacolarità e sobrietà, un respiro quasi europeo.

 

Una regia che, sebbene lasci per strada una maggiore caratterizzazione dei personaggi di contorno (un ingessato Alec Baldwin e una Kristen Stewart monocorde) non cerca di impressionare, non fa leva sul racconto della sofferenza, non va mai sopra le righe. Ma sceglie invece di soffermarsi sui silenzi, sugli sguardi e sulla fisicità della sua straordinaria attrice protagonista: una Julianne Moore che non solo vincerà l’Oscar (dopo averlo sfiorato per 4 volte) ma dimostrerà una volta per tutte che per una grande interpretazione non serve un grande ego.

 

 

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