Francesco Munzi – Anime nere

Qualche cortometraggio, diversi documentari e poi il grande salto nel lungometraggio, dieci anni fa, con Saimir. Tanti premi, elogi da ogni parte, riconoscimenti grazie ai quali si aprono le porte per un opera seconda, Il resto della notte, che pur strappando il biglietto per la Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, non convince come l’esordio. E allora il solito tran tran alla ricerca di produttori, sponsor, finanziamenti esteri che dopo tre anni, finalmente, lo portano al suo terzo lungometraggio, Anime nere, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2014. Francesco Munzi, classe 1969, non è di certo un autore che si è fatto mancare la gavetta. Tantomeno un regista che ha paura di sporcarsi le mani con storie difficili e rischiose.

 

Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, Anime nere, racconta la storia di tre fratelli calabresi che hanno preso strade diverse. Luigi (Marco Leonardi) è un trafficante internazionale di droga che con gli anni è diventato il membro di spicco della famiglia; Rocco (Peppino Mazzotta) è uno stimato  imprenditore che vive a Milano ed aiuta il fratello Luigi nel riciclaggio di denaro sporco; Luciano (Fabrizio Ferracane), invece è rimasto in Aspromonte a fare il pastore, lontano dai traffici dei due fratelli. Suo figlio Leo, però (Giuseppe Fumo) è insoddisfatto della vita di campagna condotta dal padre e sogna di ripercorrere la carriera criminale dello zio Luigi. Sarà proprio un suo gesto incosciente contro un clan rivale a scatenare una spirale di violenza e vendetta che coinvolgerà tutta la famiglia.

 

 

Poche parole e pochi gesti bastano al regista per raccontare la storia di un’intera famiglia. Elementi che come i pezzi di un puzzle Munzi costruisce fino a formare un quadro completo, rigoroso, solido. Lentamente il film si dispiega davanti a noi e sottovoce rivela la sua forza. La regia di Munzi, se da un lato esalta una messinscena scarna, gelida e senza eccessi, dall’altro valorizza una magnifica sceneggiatura non interferendo con il racconto ma anzi agevolando la fruizione della trama. Il regista disegna un opera asciutta, essenziale, che non utilizza gli stereotipi associati ai film di mafia o l’epica insita nei film di gangster. Munzi lavora in sottrazione e aspetta insieme a noi che il film si componga. La sua macchina da presa osserva i personaggi e non li giudica, non li mitizza, non li denuncia, ma rimane in attesa di un loro sviluppo compiuto, che raggiungerà a poco a poco per poi esplodere nello splendido finale.

Un film che se fosse stato realizzato da un autore francese, staremo già a chiederci per quale motivo un’opera così non sia stata ancora prodotta in Italia.

 

 

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