Tricky – Adrian Thaws

La pubblicazione di False idols, un anno fa, ha evidentemente inaugurato una nuova fase della carriera di Tricky. Non perché ci sia stata chissà che evoluzione stilistica, perché in fondo Adrian Thaws è da un po’ che continua a bazzicare tra le macerie del fu trip-hop. No, la sensazione che sia scattata una nuova fase è piuttosto legata al grado di apertura che Tricky comincia a mostrare nei confronti dell’esterno: le dichiarazioni e il titolo di questa sua ultima fatica (il suo vero nome) lasciano trasparire se non altro un maggior desiderio di comunicarsi.

Dal punto di vista artistico, questa è certamente una notazione di nessun valore: se confessarsi significasse essere grandi artisti, là fuori sarebbe pieno di Nobel. E infatti, come il precedente False idols, anche Adrian Thaws è un disco che fatica un po’. Non a colpire, perché Tricky, da questo punto di vista, è sempre esemplare: i beat lenti, marcati, i synth spettrali, la voce oscura, sono cliché che il musicista di Bristol sa usare sempre in modo efficace per comunicare (ancora questa parola) un’inquietudine un po’ malata, alienata. Il punto, però, è che a grattare sotto la superficie c’è pochino. Adrian Thaws doveva fornirci la versione di Tricky della club music, ovvero il sound con cui è cresciuto ma che non ha mai frequentato troppo. Poteva essere una rivoluzione, ma è rimasta tutta nei comunicati stampa: all’infuori di qualche guizzo, qui siamo nei soliti paraggi, con forse qualche punta di blues e hip hop in più, ma relegata in superficie.

Pezzi come Nicotine love (cantata con Francesca Belmonte), Lonnie listen (con Mykki Blanco e ancora la Belmonte) e Gangster chronicles (featuring di Bella Gotti e, soprattutto, con un campione dei Massive Attack), rappresentano il “nuovo” corso, ma sono tentativi piuttosto scolastici, per quanto ben cesellati (vedi le tastiere stridule e il break di batteria dell’ultima). Ed è un peccato, perché ad esempio I had a dream, con quel loop di piano blues, i campionamenti dei fiati e l’elettronica polverosa, poteva regalare qualche suggestione in più se Tricky non si fosse fermato alla ricerca un po’ autoindulgente dell’effetto. Ricerca che forse raggiunge il massimo in My Palestine girl, in cui Tricky, dopo tanto sussurrare la vite borderline dei bassifondi urbani, si concede all’attualità, raccontando una storia d’amore e guerra.

All’opposto dello spettro – sonoro, emotivo – si colloca Silly games, una cover di Janet Kay con Tirzah (che compare anche nell’hiphoppeggiante apertura di Sun down), un motivo romantico dalle inflessioni dub e reggae che, francamente, nella migliore delle ipotesi suona fuori posto. Soprattutto considerando che viene subito dopo le schitarrate elettriche di Why don’t you, un mix di rap, drum’n’bass, hard rock e house.

Insomma, Adrian Thaws pesca un po’ dappertutto, ma finisce col rifare il se stesso più confuso degli ultimi anni. Non proprio il massimo, insomma, per uno che 19 anni fa incendiava Bristol col debutto Maxinquaye

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