Shinya Tsukamoto – Nobi. Fires on the plain

Una vera e propria storia d’amore, quella di Shinya Tsukamoto con la mostra del cinema di Venezia che, dopo la vittoria del premio speciale della giuria nella sezione “Controcorrente” nel 2002 per A snake of june, ha regalato al regista giapponese la partecipazione nella selezione ufficiale nel 2009 con il terzo capitolo di Testuo e la vittoria nel 2011 nella categoria “Orizzonti” con Kotoko. Idillio che prosegue quest’anno con Nobi – Fires on the plain, con il quale Tsukamoto torna a concorrere per il Leone d’oro. Ed è un ritorno in grande stile quello del filmaker nipponico (suoi come sempre il montaggio, la fotografia, la regia). Non tanto per la solita scossa sensoriale che ogni suo film provoca allo spettatore, ma soprattutto per l’aver saputo adattare il suo sguardo allucinato e ossessivo ad una storia dal grande respiro drammaturgico, lontana dalla “particolarità” linguistica e ambientale dei suoi film precedenti.

 

 

Tamura (interpretato dal regista stesso) è un soldato giapponese che durante la Seconda Guerra Mondiale, perde il suo plotone e si ritrova solo nella giungla. Alle prese con preoccupanti condizioni di salute e stremato dalla fame, il soldato sarà costretto a unirsi ad altri uomini, che però gli fanno perdere via via quella poca di umanità che ancora conserva. Ma se l’ambientazione è distante dal cemento e dalla ferraglia di Testuo, i temi trattati da Tsukamoto in Nobi sono gli stessi di sempre. La parabola di Tamura altro non è che una infernale e delirante caduta alle viscere della natura umana. Una progressiva discesa dell’essere umano allo stato di animale. Un viaggio spaventoso verso lo smembramento stesso della forma, rappresentata dal corpo, dalla carne, dal sangue. Una trasformazione dell’uomo che, diversamente dal film cult del 1989, non si manifesta esteriormente, ma avviene tutta all’interno dell’anima.

 

Un film eccessivo, sregolato, acceso da improvvisi raccordi di montaggio e da un sonoro altamente disturbante (tutti elementi classici dello stile di Tsukamoto). Eppure, allo stesso tempo, misurato, fortememte radicato nel reale, senza eccedere con gli elementi splatter e onirici. Un cinema di impatto, di una energia vibrante che scuote chi lo guarda e di fronte al quale è impossibile rimanere indifferenti. Peccato solo per il doppio finale, che non aggiunge nulla al discorso, tanto era stato chiaro e limpido il messaggio mandato dal regista lungo tutta la pellicola. Difetto che tuttavia non sposta di una virgola l’unicità e la radicalità del cinema di Tsukamoto, tantomeno la sua candidatura alla vittoria finale.

 

 

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