Interpol – El pintor

Un «ritorno alla forma». È stato Daniel Kessler, in un’intervista, ad usare questa espressione per raccontare il nuovo album degli Interpol, El pintor. E in effetti si può dire che il chitarrista abbia centrato appieno il punto. Nel 2010, a distanza di 3 anni dal precedente Our love to admire, gli Interpol pubblicarono un album omonimo che sviluppò il loro sound (un rock chitarristico di matrice new wave con inflessioni goth/dark) in chiave più atmosferica. All of the ways e The undoing, maestose e dolenti come la voce di Paul Banks, e persino il primo singolo, Lights, una sorta di cerimoniale orgiastico in lento crescendo, sembravano meno interessate alla dialettica stringente del rock classico (strofa-ritornello) per perseguire un’idea forse più paesaggistica. Meno architettura, più impressione.

Ora, però, qualcosa è cambiato. Sarà che la band ha metabolizzato del tutto l’uscita di Carlos Dengler (in El pintor è Banks che suona il basso), sarà che dopo quattro anni di silenzio la formazione ha avuto tempo di ricaricare le batterie, sarà che i fan premevano per avere di nuovo gli Interpol di Turn on the bright lights, il loro primo album, tra gli episodi più significativi del rock dei Duemila. Fatto sta che il trio newyorkese, con El pintor, ha dato alle stampe il suo disco migliore dai tempi di Antics (2004).

Ovviamente, TOTBL è il convitato di pietra, e sebbene non manchino i riferimenti (a cominciare da un titolo come Breaker 1, che richiama inevitabilmente Obstacle 1), il paragone rischia di essere fuorviante. El pintor non suona come un tentativo di rifare Turn on the bright lights; piuttosto, come una sintesi tra la ricerca sul sound, l’attenzione all’atmosfera e un’idea di canzone più stringente, compatta, rispetto al recente passato.

Il “ritorno a casa” porta con se una buona dose di rabbia (All the rage back home), che la band incalana in un refrain esplosivo, energico, che il retrogusto malinconico della voce di Banks e soprattutto il chitarrismo forsennato e subdolo al tempo stesso di Kessler trasfigurano in chiave metafisica. Il trittico d’apertura dell’album è da ko: la seconda traccia, My desire, si snoda a partire da una trama ipnotica della sei corde elettrica, con il baritono tagliente di Banks e la ritmica metronomica di Sam Fogarino che fanno il resto. Anywhere è il terzo centro: tra cieli infranti ed oceani che ispirano possibilità infinite («I could go anywhere»), il brano procede come in equilibrio su un onda infinita, riprendendo ogni volta vigore quando sembrava che dovesse spegnersi.

Il resto del disco, sebbene leggermente inferiore, non tradisce le premesse. La pulsante Breaker 1 e Tidal wave (con il suo refrain corale) sono altri due pezzi da novanta; appena un gradino sotto Same town, new story (giocata su un riff estenuante di chitarra), My blue supreme e Everything is wrong. Ancient ways è una tempesta elettrica che ha forse un po’ il vizio dell’album precedente, un interesse più per il suono che non per la struttura, ma va bene lo stesso. E va bene anche che la chiusura di Twice as hard non si all’altezza di All the rage back home: agli Interpol, a questi Interpol, gli si perdona volentieri tutto.

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