Bryan Singer – X-Men: giorni di un futuro passato

Il decennio ’60-’70 è un luogo da cui Hollywood non riesce a stare mai troppo lontano. La morte di Kennedy, la guerra del Vietnam, il ’68, Nixon: il cammino di quegli anni è costellato di tappe cruciali che costrinsero l’America ad arrestare la sua marcia trionfale post-Seconda guerra mondiale per guardarsi allo specchio, col rischio di non riconoscersi più. Si chiama “perdita dell’innocenza”, quando cioè scopri che, malgrado le buone intenzioni, hai finito col calpestare quegli stessi valori per cui, fino a poco prima, ti eri battuto. Per l’America, fu un brutto risveglio.

 

Hollywood, dicevamo, ha dedicato all’argomento ampie e belle pagine di cinema, con toni che vanno dal comico al tragico. Nel mezzo, anche il fantastico-action di X-Men: giorni di un futuro passato, settimo capitolo della saga dedicata ai mutanti Marvel, diretto da quel Bryan Singer che, ad inizio secolo, aveva firmato i primi due episodi. Come lo stesso titolo sottolinea, la dimensione temporale è particolarmente importante, nel film. La sceneggiatura di Simon Kinberg (ispirata ad un fumetto del 1981 di Chris Claremont e John Byrne) salta dal futuro al passato e poi ancora al futuro. Si parte dal 2023, anno in cui i mutanti sono stati decimati dalla lotta con le Sentinelle e si torna indietro al 1973, quando l’assassinio da parte di Mystica del creatore dei terribili robot, Bolivar Trask, dette di fatto inizio al massacro dei mutanti. Messi alle strette, il dottor Xavier e Magneto sotterrano l’ascia di guerra e, con l’aiuto di Kitty Pride/Shadowcat, rimandano indietro nel tempo la coscienza di Wolverine, con l’intento di fermare Mystica e scongiurare la futura guerra tra uomini e mutanti.

 

 

Nasce da qui la singolare ambientazione di X-Men: giorni di un futuro passato, con un giovane Xavier ridotto a un rudere e dipendente da un siero che gli permette di camminare (e gli “addormenta” i poteri telepatici), Magneto arrestato per aver fatto fuori Kennedy (eh sì, altro che Oswald…) e Mystica che compie irruzioni nei campi di militari in Vietnam per liberare i soldati mutanti. L’evento-clou è la conferenza di Parigi, in cui, nel ’73, si stabilì il ritiro americano dal Vietnam, e che qui diventa occasione per siglare una tregua tra umani e mutanti che rappresenta, più in generale, una riconciliazione con il “diverso” e un atto di fiducia verso il futuro.

 

Se la morale di X-Men: giorni di un futuro passato è banale (il futuro non è scritto, si può sempre modificare), più affasciante è questo suo tornare in un “luogo” della storia americana sottolineandone il valore cruciale, con un pizzico quasi di rammarico (non è che poi, da lì, gli USA non siano mai più scesi in guerra). Questa rilettura si inserisce all’interno di due ore spettacolari, in cui però le sequenze d’azione, arricchite da una certa aria shakespeariana, mostrano anche un po’ di humor (vedi la scena della fuga di Magneto con Quicksilver). Ben delineati i personaggi principali, e ottime le prove attoriali, con James McAvoy una spanna sopra tutti.

 

 

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